Virtualmente il 2,4% non si tocca, perché nell’immaginario collettivo il «governo del cambiamento» deve far sapere al «popolo» che non mollerà. Ma in politica anche la matematica può diventare un’opinione, ed è certo che — nel tempo — i «numerini» della manovra diverranno un’interpretazione, per acconciarsi all’esigenza di un inevitabile compromesso. Così sul reddito di cittadinanza — prendendo a pretesto il fatto che serviranno mesi per realizzare il testo di legge — verranno dilazionate le risorse, e i nove miliardi previsti per un anno saranno ripartiti in un triennio. Anche l’avvio della riforma pensionistica sarà fatto con un po’ di ritardo rispetto al target di gennaio, in modo da diluirne i costi, e con l’idea che di avviare una prima fase sperimentale. La Commissione europea, al dunque, non potrà non tenere conto di questo nuovo scenario.
Perché il problema ormai è chiaro a tutti, a cominciare da Salvini e Di Maio: lo spread a questi livelli non si regge. Sabato scorso in Consiglio dei ministri il titolare di via XX Settembre aveva alzato la voce prima di sbattere la porta: «Abbiamo delle responsabilità verso il Paese. Abbassando il deficit abbasseremmo anche lo spread. E lo spread deve calare o la pressione sulle banche diverrà insostenibile e il governo dovrà spendere dei soldi per salvarle». Siccome l’appello a scendere subito al 2,1% non era stato ascoltato, Tria aveva polemicamente disertato la conferenza stampa sul decreto fiscale. Il punto è che — durante la riunione di governo — c’era chi riteneva (e ritiene) che nemmeno un intervento di riduzione della manovra riuscirebbe a contrastare il «sentiment» che sta influenzando i mercati.
Lo spread è il fantasma che si aggira sui conti di palazzo Chigi, nonostante Conte tenti di attribuirne l’aumento a fattori politici: sette giorni fa disse che era colpa delle «liti tra ministri»; l’altro ieri che è per «la prospettiva dell’Italexit dall’Europa». In realtà lo spread è stato innescato dall’impianto della manovra. Come ha confidato Giorgetti, «Conte sa come stanno le cose, gli erano state spiegate, si era ripromesso di intervenire su Di Maio e Salvini. Ma poi…». Poi gli azionisti di maggioranza nel governo avevano preso il sopravvento, nonostante gli appelli dello stesso Giorgetti sul leader leghista e del grillino Buffagni sul capo del Movimento. Negli ultimi giorni il fronte trasversale dei «responsabili» si è ingrossato, per effetto della dura realtà delle cose.
I paracadute sono pronti per essere aperti al momento opportuno onde evitare lo schianto: dietro l’arida contabilità nelle tabelle di bilancio s’intravvede il bizantinismo della politica che ricorda altre stagioni. L’obiettivo è creare un mix, necessario a salvaguardare gli obiettivi elettorali di M5S e Lega e allo stesso tempo mettere al riparo il sistema, verso cui vengono lanciati chiari segnali. C’è un motivo infatti se, prima sul Messaggero e poi a Porta a Porta, Giorgetti ha reso pubbliche le sue preoccupazioni sulle banche: «Nel caso fosse necessario, ci muoveremmo per tempo. Non faremmo come Renzi, che agì troppo tardi, rendendo il suo intervento più oneroso e meno efficace».
L’intento del sottosegretario alla presidenza era quello di parlare al mondo del credito. Fonti accreditate raccontano a tal proposito che Guzzetti, presidente dell’Acri, stia preparando «un intervento molto forte» in vista del discorso che terrà il 31 ottobre alla Giornata del risparmio. Nel governo sanno che — rispetto alla crisi del 2011 — le banche hanno «in pancia» molti più titoli di Stato, e l’aumento della pressione fiscale previsto dalla manovra le mette in una condizione di crescente difficoltà. Un altro colpo di spread e la campagna per le Europee di Di Maio e Salvini si trasformerebbe in una via crucis: anche di questo i due leader erano stati avvisati.
Resta da capire se e come Roma e Bruxelles riusciranno ad arrivare al «disarmo bilaterale», anche solo verbale. Perché — come aveva ripetuto Tria in Consiglio dei ministri — «in Italia possiamo anche non dar peso alle parole di un presidente della commissione Bilancio. Ma all’estero quelle parole vengono prese sul serio». Figurarsi quando a parlare sono due vice premier.