Anche in confronto alle tensioni alle quali l’Italia è abituata da mesi,quella di ieri non è stata una giornata come le altre. Una soglia dopo l’altra, le linee di resistenza continuano a cadere. Per la prima volta dopo cinque mesi, quasi che il mercato tema per l’integrità dell’area euro, ieri sono iniziati a emergere chiari sintomi di contagio finanziario dal debito pubblico italiano anche verso economie di solito più stabili come Spagna e Portogallo. E per la prima volta sotto l’attuale governo, il prezzo del rischio percepito sui Btp è uscito dai binari pur già molto rischiosi lungo quali il Paese era corso nelle ultime settimane: fuori dalle vecchie guide, adesso la scivolata dei prezzi potrebbe proseguire più in fretta.
Dalle tre di ieri pomeriggio, il rendimento dei titoli di Stato italiani a dieci anni è iniziato a salire più bruscamente di prima fino a raggiungere il 3,73%: di oltre il doppio sopra ai livelli di prima che l’attuale governo si mettesse al lavoro. L’aumento di questo premio di rischio non ha solo conseguenze sul costo più alto che i contribuenti dovranno sopportare in interessi sul debito, ma danneggia direttamente anche imprese e famiglie: fa salire il costo di finanziamento anche per gli istituti e ne erode il patrimonio, dato il peso dei titoli pubblici, ormai svalutati, nei loro bilanci. Si prepara dunque una stretta al credito, che a sua volta non può che ridurre investimenti e creazione di posti di lavoro.
Ciò che colpisce dello strappo di ieri è l’assenza di nuove informazioni sul deficit, sul debito o sull’economia italiana. Il mercato ormai risponde a segnali puramente politici. Fra i governi europei così come fra gli investitori nazionali ed esteri, l’Italia sembra circondata ormai da una sfiducia sempre più complessiva. Pesa la percezione del caos nel processo decisionale di Roma, dove un vicepremier come Luigi Di Maio minaccia di portare in Procura la propria stessa legge di bilancio dopo mesi di deliberazioni nel governo. Pesa anche lo stato di guerra psicologica con chiunque in Europa — e ormai sono tutti, inclusi i presunti alleati politici — critichi la politica economica dell’Italia. Pesa anche l’impressione beffarda fra gli operatori di mercato che il governo non comprenda le dinamiche del debito; quando il vicepremier Matteo Salvini e il ministro degli Affari europei Paolo Savona hanno dichiarato che avrebbero reagito se lo spread fra Italia e Germania fosse arrivato a 400 punti (ieri fino a 327), gli investitori hanno tratto una conclusione: per altri 70 punti di spread possono continuare a puntare contro l’Italia senza paura di bruciarsi le mani. Le stesse frasi di Savona e Salvini hanno offerto agli speculatori al ribasso un obiettivo da inseguire.
Ieri ha pesato però anche l’attesa per un evento specifico: forse già stasera o al più tardi venerdì prossimo, l’agenzia di rating Moody’s scioglierà la sua riserva sull’Italia. Ha già indicato «prospettive negative» e, malgrado l’auspicio del premier Giuseppe Conte ieri, sembra inevitabile il declassamento di un grado nel giudizio sulla tenuta del debito. Nelle scorse settimane i vertici del Tesoro hanno lavorato per convincere gli analisti di Moody’s a non declassare di due livelli, ricordando forte surplus con l’estero che il settore privato assicura per l’Italia. Probabilmente il doppio declassamento verrà evitato, ma Moody’s potrebbe comunque rimettere «prospettive negative» al debito anche dopo il taglio di un grado nel giudizio. Lo stesso, in vista di un declassamento, potrebbe fare anche S&P fra una settimana. Per le agenzie di rating conta molto la percezione che l’intero processo di governo dell’economia in Italia sia privo di rotta.
Eppure proprio queste agenzie stanno diventando terribilmente importanti. Per Moody’s, S&P e Fitch l’Italia è a soli due scalini dal voto «non investimento» (o «spazzatura») e indici enormi come il Ftse Russell World Government Index (800 miliardi di dollari) o il Bloomberg/Barclays euro aggregate (2.500 miliardi) di fatto non possono più tenere l’Italia in portafoglio se due agenzie di rating la declassassero a «non investimento». Secondo Goldman Sachs, ciò innescherebbe vendite forzate di debito italiano per oltre cento miliardi di euro. E le soglie alle quali ciò può avvenire non sono davvero lontane.