In agosto le banche italiane hanno iniziato mostrare un comportamento senza precedenti per le fasi di tensione finanziaria sul Paese. Anziché comprare titoli di Stato mentre gli altri investitori vendevano, in modo da contrastarne la tendenza, gli istituti si sono uniti alla corrente. Si sono alleggerite di debito pubblico dell’Italia, anche a costo di contribuire all’aumento degli interessi a carico del Tesoro: in agosto l’esposizione del sistema creditizio nazionale, pur restando elevata, è scesa di quasi nove miliardi (in base all’ultimo bollettino «Moneta e banche» di Banca d’Italia).
In altri termini, nel momento di bisogno da parte del governo, per la prima volta le banche hanno iniziato a praticare un’implicita forma di graduale separazione dai suoi destini. Di rado era successo in precedenza. Nel 2011 o nel 2012 e di nuovo nei primi mesi della fase di instabilità apertasi a maggio con la prima bozza del «contratto» M5S-Lega, gli istituti si erano mossi in direzione opposta. Avevano cercato di collaborare con le autorità. La loro esposizione sul debito pubblico era salita di 11 miliardi in maggio e di altri 17 in giugno, proprio mentre i titoli del Tesoro erano colpiti da un’ondata di vendite dall’estero con crolli dei prezzi che portarono i rendimenti a dieci anni a esplodere.
Il comportamento in controtendenza degli istituti aveva una logica: poiché all’inizio di maggio in aggregato la loro esposizione sul debito pubblico era di 340 miliardi, il loro destino era (e resta) legato a quello del governo. La caduta del valore dei titoli pubblici, che va in senso opposto all’aumento dei rendimenti, genera minusvalenze per le banche che li detengono in bilancio. E un eventuale default dello Stato travolgerebbe molte di esse. Secondo alcune stime, un allagamento di cento punti (1%) dello scarto fra rendimenti italiani e tedeschi a dieci anni — il cosiddetto spread — può produrre in aggregato 1,8 miliardi di perdite in bilancio per i primi tre istituti del Paese: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco-Bpm. Non sorprende dunque che la difesa dello Stato tramite acquisti di debito in controtendenza rappresenti, per il settore del credito, anche un’autodifesa.
Questa tradizionale forma di mutuo sostegno fra banche e governo sembra però in crisi. Quest’ultimo prevede un aumento della pressione fiscale sulle prime, pur di rastrellare coperture per sussidi «di cittadinanza» o per le pensioni; inoltre, l’incertezza creata dall’esecutivo ha già fatto perdere il 32% all’indice bancario del Ftse-Mib di Milano dall’uscita della prima bozza di «contratto», proprio a causa delle perdite sui titoli sovrani. Gli istituti dunque ormai stanno cambiando strategia: iniziano ad alleggerirsi di titoli di Stato anche se lo spread sale, come in agosto (i rendimenti a 10 anni in quel mese erano saliti dal 2,79 al 3,24%).
Siamo dunque ai primi passi della separazione, benché la strada resti lunga. A fine agosto l’esposizione del sistema bancario sul debito pubblico era ancora di 372 miliardi. Le banche restano talmente vulnerabili alle fluttuazioni dei titoli di Stato che molte stanno attuando una strategia difensiva in parallelo: spostare parte dei bond sovrani dal portafoglio di trading (il cosiddetto «htcs») al portafoglio che prevede di tenerli fino a scadenza («htc» o held to collect). Unicredit, Banco-Bpm o Creval hanno iniziato a farlo nel secondo trimestre, altre seguiranno. Ciò permette di non segnare le perdite sui titoli pubblici in bilancio ogni tre mesi, evitando magari l’esigenza di aumenti di capitale perché il capitale viene eroso. Ma i banchieri sanno che si tratta di una tattica di breve respiro: vera stabilità, e credito all’economia, può venire solo da conti pubblici stabili.