«Si dice spesso «aiutiamoli a casa loro». Bene, allora facciamolo davvero, altrimenti sono solo slogan». Don Dante Carraro , rientrato venerdì mattina dall’ospedale di Wolisso, in Etiopia, è il direttore di «Medici con l’Africa Cuamm». Ha 60 anni e da 25 è in prima linea per sostenere lo sviluppo di questi Paesi attraverso la scuola e la sanità, «le due basi di un popolo». Ieri sera, alle 18.30 nell’aula magna del palazzo dell’Istruzione di corso Bettini, ha affrontato assieme a Dino Maurizio , presidente di Informatici Senza Frontiere, il tema «Africa e tecnologia».
Don Dante, la tecnologia come sta influendo sulla sanità africana?
«In maniera massiccia. Gli ecografi, oramai anche portatili, intuitivi da usare e disponibili a prezzi accessibilissimi, ci stanno dando una grossa mano nel monitorare le mamme che stanno per partorire, evitando complicazioni che potrebbero portare a lesioni gravi o addirittura alla morte. Esistono anche dei particolari palmari dotati di fotocamera che ci aiutano a prevenire il cancro della cervice uterina, una delle principali cause di morte delle giovani donne. Semplici apparecchi che ci hanno permesso di salvare numerose vite».
È stato difficile abbattere le barriere culturali?
«Noi siamo medici “con” l’Africa. La nostra presenza è di lungo corso ed è fondamentale l’integrazione con il contesto culturale, istituzionale e sanitario in cui ci troviamo. Lavoriamo gradualmente, con pazienza e senza calare nulla dall’alto, attraverso la formazione e la mediazione degli operatori locali».
Quando è nata «Medici con l’Africa Cuamm» e in quanti siete oggi?
«È nata nel 1950 e attualmente conta 220 operatori fissi tra medici e tecnici, presenti per periodi che vanno dai 3 ai 5 anni. Collaborano con noi poco meno di 2.000 operatori locali e gestiamo 23 ospedali in otto diversi Paesi dell’Africa subsahariana. Abbiamo aperto tre scuole di formazione per infermieri e ostetriche e una di medicina in Mozambico».
Che altri vantaggi ha portato l’innovazione tecnologica nel vostro mestiere?
«Oltre alle applicazioni più cliniche, ora possiamo raccogliere in database e gestire in maniera sicuramente più unitaria tutte le informazioni dei pazienti. Informazioni sia quantitative che qualitative, sul tipo di patologie, che ci permettono di avere sotto controllo uno o più ospedali, metterli in rete e pianificare meglio le attività. Anche dal punto di vista finanziario e della gestione dei farmaci, la computerizzazione in sistemi informatici ci permette di monitorare entrate e uscite, rendendo più efficienti cure e strutture. Solo un dato. In Etiopia, uno dei Paesi più poveri, la spesa media pro capite per l’assistenza sanitaria è di 12-15 dollari all’anno, in Italia di 2.500».
E nella vita di tutti i giorni, invece, come ha inciso l’avvento della tecnologia?
«Le persone comuni, escludendo quelle che vivono nelle zone rurali più estreme, hanno tutte in mano un telefonino, grazie anche ad alcune operazioni delle compagnie telefoniche e alla distribuzione di cellulari a basso costo. Facebook e Instagram sono usati».
Durante l’incontro di ieri avete affrontato anche il tema caldo dei flussi migratori.
«Certo. La rilevanza dell’innovazione tecnologica nello sviluppo sanitario in Africa ha ricadute importanti anche sul tema migratorio. Vi faccio un esempio. Amina, 23 anni, si è diplomata come ostetrica presso l’ospedale di Lui, in Sud Sudan. Sognava l’Europa, ma adesso è più che orgogliosa di poter fare del bene per il proprio Paese. Chi scappa lo fa perché sta vivendo situazioni drammatiche. Noi cerchiamo di creare prospettive di futuro sul posto. L’Uganda, dove “Medici con l’Africa Cuamm” è attiva dal 1958, negli ultimi anni è cresciuta e la sanità ha fatto grandi passi avanti. Ogni anno vengono formati professionalmente 280 medici, il Pil cresce di un 5% annuo e nel 2017 non c’è stato un ugandese che abbia attraversato il Mediterraneo. Investire convintamente in questi Paesi, in maniera appropriata, equilibrata e non predatoria, consentirebbe veramente di cambiare le cose».
«Aiutarli a casa loro», insomma?
«Noi lo facciamo per davvero. Sono loro, i ragazzi e le ragazze africane, che ce lo chiedono. Non vogliono scappare, ci chiedono soltanto di aiutarli a costruire il loro futuro qui. In Africa».
*L’Adige, 13 ottobre 2018