Converrà ammettere subito che la parola «cambiamento» si sta ammalando, l’abuso che se ne fa nella comunicazione politica la sta sfibrando. Ma con Arnaldo Bagnasco, ligure e torinese di adozione, uno dei maggiori sociologi italiani a cui dobbiamo importanti studi come quelli sulle Tre Italie e la crisi dei ceti medi, quando si parla di cambiamenti si allude a quelli carsici, di lungo periodo, che trasformano davvero i territori e l’economia. Laddove la politica sta utilizzando la parola di cui sopra in chiave giacobina, con Bagnasco si parla anche di fenomeni spontanei ovvero inattesi, di movimenti che addirittura la stessa sociologia è capace di leggere con precisione solo diverso tempo dopo che sono avvenuti. Comunque sia, per tentare di ricostruire una mappa delle trasformazioni in Italia consiglia di usare l’«intelligenza geografica». Vedremo come.
Partiamo dalle sue Tre Italie.
«La terza Italia del Centro Nord-Est, con il suo sviluppo a economia diffusa, emersa del tutto inattesa a cavallo degli anni Settanta come un’altra gamba dello sviluppo rispetto al vecchio triangolo industriale Milano-Torino-Genova, era un modello che sapeva mettere assieme economia e politica, ma era anche la risposta a un contesto internazionale in movimento. In fondo si trattava di società locali e regionali che per i loro caratteri si trovavano capaci di rispondere in un modo innovativo alla fine della vecchia società industriale e all’apertura dei mercati. Non dimentichiamo infatti che attorno erano successe tante cose, e altre ne succederanno. Un momento cruciale si presenta negli anni Novanta con il rafforzamento della Ue, le liberalizzazioni dei mercati, dei movimenti delle persone, delle merci e dei capitali, l’avvicinarsi della moneta unica. Mutamenti ambivalenti, ma anche un’onda su cui bisognava salire per modernizzare il modello, e questo è avvenuto solo in parte. Cominciano a manifestarsi in quegli anni i limiti strutturali dello sviluppo italiano, che un economista lucido come Marcello De Cecco metteva in luce impietosamente. Le crisi più recenti si sono poi sentite in tutto il Paese».
Economia e politica in Italia raramente si sono abbinate.
«Nella Terza Italia la società aveva compensato alcuni dei limiti strutturali dello sviluppo italiano. Quanto alla politica, le zone di nuova industrializzazione erano anche le uniche che non seguivano lo schema a bipartitismo imperfetto. In Emilia l’egemonia rossa era incontestata come quella bianca in Veneto. Si trattava di assetti fortemente integrativi, che davano anche stabilità all’economia e corretta amministrazione».
Il Sud restava ancora una volta fuori gioco.
«Negli anni Novanta erano nati anche nel Mezzogiorno esperimenti interessanti come i patti territoriali, qualcuno ha avuto seguito, altri sono naufragati. In questi casi il limite era nell’incapacità di definire alleanze, cuciture, progetti per la costruzione di un modello locale efficiente. Si sovrapponevano al tessuto economico e politico preesistente, non lo cambiavano».
Gli economisti mainstream hanno guardato sempre in cagnesco allo sviluppo locale. Hanno decretato la morte dei distretti già un centinaio di volte.
«Eppure da noi lo sviluppo locale è stato importante, ha apportato molte risorse allo sviluppo nazionale e all’integrazione sociale. Del resto, le politiche di sviluppo locale non devono riguardare solo i distretti e la loro evoluzione, sono una parte cruciale delle necessarie politiche economiche complessive. E qui ci appare subito il ruolo delle città, attori principali nell’organizzazione delle differenze italiane».
Ma sono tutte alla pari? Milano sembra una cosa assai diversa da Bologna, Padova, Torino…
«Certo, e le conosciamo poco. Un geografo direbbe che Milano è una conurbazione di quattro milioni di abitanti con almeno quattro province coinvolte, in totale la quarta d’Europa. Ma come è venuta fuori? Nessuno l’ha progettata, né in sede politica né in sede amministrativa, come evolverà? Noi come metropoli attive siamo in ritardo, abbiamo Milano, in parte Roma e fino a qualche tempo fa Torino».
Quello che una volta era lo sviluppo locale oggi in staffetta è rappresentato dalle città.
«Anche le città sono attori dello sviluppo locale. Hemingway diceva che le città sono isole nella corrente, devono selezionare i flussi per consolidarsi e non essere travolte. L’ossatura caratteristica dei sistemi urbani europei, accanto a poche metropoli, è costituita da medie città tra i 200 mila abitanti e i due milioni. Sono una grande risorsa, che forse abbiamo sottovalutato quando abbiamo studiato l’attivazione della crescita e la coesione del modello sociale europeo; per quanto ci riguarda abbiamo dato più peso alle pensioni che alle città. In Europa le medie città hanno funzionato, in Italia molto meno perché è mancata una legislazione ad hoc, unitaria, non frammentata o occasionale».
Di mezzo c’è stata la Seconda Repubblica, il predominio della televisione sui territori.
«Be’, non solo. Un’idea che ho maturato è che le Regioni sono state fatte crescere male: dovevano essere organizzatrici di un grande campo da gioco spaziale, dove il ruolo di veri giocatori spetta alle città; invece non hanno imparato il loro mestiere, che doveva essere quello di potenziare lo sviluppo locale».
Le città italiane sopra i 200 mila abitanti oggi le paiono in difficoltà?
«Non solo da noi: faticano a combinare sviluppo economico e coesione, la disuguaglianza sociale aumenta, i problemi generali si scaricano su di loro. Attirano i flussi migratori, ma se addirittura gli svedesi non riescono a gestirli con le loro Malmö o Göteborg, è inevitabile che noi fatichiamo con le nostre Modena o Padova. Anche le città medie non sono in grado di soddisfare le aspettative di molti dei loro nuovi abitanti».
In generale, l’antidoto non è l’apertura? Milano è rinata così.
«La chiusura è la malattia dei sistemi locali, dovremmo indagare se le nostre medie città, le nostre Modena o Padova, e non solo loro, siano sufficientemente aperte o risultino chiuse, dovremmo mappare le loro reti interne e internazionali. Come diceva Braudel “sono le strade che spiegano le città” e noi oggi potremmo sostituire la parola “strade” con reti. Le reti di reputazione e di affari, le interazioni. Torino con il ridimensionamento della Fiat quanto tessuto di relazioni ha perso nel mondo?».
I sistemi locali hanno però partorito le multinazionali tascabili, si sono dimostrati più aperti del salotto buono che puntellava alla Cuccia le vecchie famiglie.
«Il quarto capitalismo è stato una grande novità e risorsa italiana; si può prevedere che le multinazionali tascabili faranno fatica a crescere al di sopra della taglia che già hanno, ma dobbiamo augurarci che aumentino di numero. Sono state un’evoluzione dei distretti perché non si accontentavano dei servizi e dei fornitori che trovavano nella prossimità, ma li cercavano nel mondo».
Mi è capitato di definire il Nord come «la Regione A4» per sottolineare il ruolo dell’autostrada Torino-Trieste come continuum produttivo e culturale.
«È una striscia unica, lo spazio del Nord è più omogeneo di prima. E Milano ha in parte cominciato a utilizzarlo in chiave sistemica».
Con la svolta nazionale di Matteo Salvini la Padania è uscita dai radar politici. Una lunga narrazione che aveva visto in campo ampolle e tradizioni celtiche è finita in soffitta in breve tempo.
«Non ho mai creduto alla Padania, era un concetto contraddittorio, saltava le differenze interne al Nord. Non a caso la Lega ha trovato resistenza nelle grandi città e ancora oggi non amministra Milano, Torino, Padova, Bergamo. Avrei immaginato una resistenza più forte di fronte alla drastica svolta salviniana, ma molto si deve all’incapacità della sinistra di rigenerarsi».
Oggi si parla molto del nuovo triangolo industriale Treviso-Milano-Bologna, che ha saputo intercettare la ripresa 2015-17 meglio di tutti. È un cambiamento di breve o di lungo periodo?
«È presto per dire cosa succederà. Il nuovo triangolo è un luogo forte dell’economia, ha non solo industria, ma servizi, università. Il geografo Allen Scott sostiene che il mondo è pieno di amalgami territoriali di economia e società in cerca di rappresentanza politica. Anche gli studi cercano di dare una rappresentazione di questo fenomeno, spesso si usa il termine piattaforma per indicare le dinamiche di amalgama».
Tuttavia a decidere del futuro dei territori non sono i fattori endogeni, ma i flussi, le strade per ridirla con Braudel.
«Sì, per questo non dobbiamo ingessare i flussi. Se è necessario incanalarli, governarli, non rinunciamo alla loro spontaneità. I flussi aiutano i territori ad adattarsi ai cambiamenti esterni, al mondo che muta. L’exploit di Emilia e Veneto non si spiega solo guardando all’Emilia e al Veneto, ma con uno sguardo globale».
Solo spontaneità?
«Certamente no. Spontaneità non ha solo un significato positivo. Abbiamo anzi necessità di recuperare capacità di controllo e progetti di innovazione. Quanto alle reti, sono fatte di flussi e di nodi, le città. Sono realtà capaci di produrre ordine e senso, e a loro volta generano innovazione sociale, ma subiscono anche direttamente il peso dei problemi. Gli scienziati sociali le studiano e catalogano in questa chiave. Del resto anche gli americani hanno creato la rappresentazione della Silicon Valley come uso dell’intelligenza geografica, a dimostrazione che la dimensione spaziale dell’organizzazione sociale non può essere accantonata nei progetti di sviluppo».
*La Lettura, 7 ottobre 2018
Dario Di Vico condurrà l’evento di anteprima del Festival, “Logistica e infrastrutture: il vocabolario della crescita“, in programma per giovedì 25 ottobre alle 18 all’Aeroporto di Milano Bergamo, in cui interverranno Emilio Bellingardi, direttore generale SACBO, Paolo Emilio Signorini, presidente Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Occidentale, e Paolo Uggè, vicepresidente Conftrasporto, e l’evento “Le ambizioni della tecnologia Made in Italy“, in programma per venerdì 26 ottobre alle 11.30 in Sala Mosaico della Camera di Commercio di Bergamo, in cui interveranno Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo, e Stefano Paleari, commissario straordinario di Alitalia.