Il nuovo Def scommette su deficit e più crescita. Ma il rischio recessione aumenta con lo spread che sale. Resta il nodo dei mercati sui piani di riduzione del debito e sugli obiettivi fissati. Non è stato semplice il primo giorno dell’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def), finalmente pubblico. Una lettera dalla Commissione Ue lascia già capire che un bilancio basato su quei presupposti verrà respinto a giro di posta. Mario Draghi ne ha parlato giovedì con Sergio Mattarella,in una consultazione a scadenze regolari fra il presidente della Banca centrale europea e il capo dello Stato. Nel frattempo gli investitori, una volta assorbito il programma del governo, hanno trattato lo Stato italiano come un debitore sempre più rischioso.
I rendimenti per compensare chi compra i titoli di Roma a scadenza fra dieci anni sono saliti quasi ai massimi dal 2014, come se quattro anni di interventi della Bce per 360 miliardi di euro fossero finiti in fumo. E i costi che deve affrontare l’Italia per indebitarsi hanno continuato a salire rispetto al resto d’Europa: altri otto punti (0,8%) persi sulla Spagna, sette su Portogallo e Francia, sei su Olanda e Germania.
Dunque al mercato non piace ciò che legge, oppure non ci crede. Il piano prevede che entro il 2021 l’economia risalga sopra i livelli pre-crisi, il debito cali di più dell’uno per cento all’anno, lo Stato porti fino in fondo privatizzazioni per dieci miliardi, gli investimenti accelerino pur restando sub-judice tutte le grandi opere; nel frattempo si dovrebbero fare quasi quattro miliardi di tagli di spesa in un solo anno (quasi tutti dai ministeri) e il costo di nuove misure di welfare per circa 16 miliardi sarà in teoria assorbito dalla crescita dell’economia. Un programma difficile da non apprezzare, se uno ci crede. L’impressione però è che il mercato stia reagendo non al merito del Def, ma a quella che interpreta come la sua inverosimiglianza.
L’obiettivo di deficit pubblico per il 2019 è al 2,4% del prodotto lordo (Pil),in aumento da questo anno ma con il progetto di un calo per tornare ai livelli attuali (1,8%) in un triennio. Il rischio è che dietro questi numeri, alla prova dei fatti, si nasconda una serie di deficit vicina al 3% o anche di più; fa differenza, anche se non esistessero le regole europee: questo scenario spalancherebbe la porta al rischio che il debito pubblico vada fuori controllo avvitandosi verso l’alto.
I numeri del Def di per sé sono trasparenti. Una volta neutralizzato l’aumento dell’Iva e pagate spese come le missioni all’estero, il deficit nel 2019 tende appena sopra il 2% del Pil. Ad esso vanno aggiunte fino a 0,9% di spese per il reddito di cittadinanza e la contro-riforma delle pensioni, uno 0,1% per rimborsare i risparmiatori delle banche e circa 0,2% per gli sgravi fiscali annunciati per le imprese. In sostanza il deficit è diretto ben sopra alle soglie anche più audaci, dunque va ridotto. Il problema è che molte delle misure annunciate a questo scopo risultano passeggere, incerte o dagli effetti così impopolari da far dubitare che un governo populista voglia metterle in campo. Di passeggero — non ripetibile l’anno dopo, anche se intanto le spese continuano a correre — ci sono due elementi: i sussidi per pensioni o reddito di povertà non potranno scattare dal primo giorno dell’anno, dunque solo per il 2019 il loro costo viene mitigato per poi diventare pieno dall’anno dopo; inoltre nel 2019 molti dei costi sono coperti con il gettito di un condono che promette di essere ampio e irripetibile. Il governo in questo è come un capofamiglia che accende un mutuo e paga la prima rata vendendo i mobili all’incanto, senza sapere come pagare la seconda se non con sacrifici che rifiuta (aumenti Iva).
Ci sono poi le grandezze incerte: si annunciano risparmi immediati per circa 3,5 miliardi ai ministeri ma, tolto il personale, i loro costi già ora sono di appena 13 miliardi e non sarà facile tagliare oltre l’osso (senza aver nominato un commissario alla spending review). Eliminare gli sgravi fiscali più sostanziosi significa poi scontentare elettori, per esempio nell’autotrasporto o in agricoltura. Inoltre non si calcola l’ammanco di gettito contributivo e dall’imposta sui redditi che deriva dal pensionamento anticipato di centinaia di migliaia di persone giunte al massimo in busta paga, anche se poi fossero davvero tutte sostituite da giovani a salari molto inferiori. Infine, il livello dei rendimenti del debito pubblico è così alto da far pensare che alla fine gli interessi costeranno almeno due miliardi in più di quanto messo nero su bianco.
Insomma quel deficit al 2,4% nel 2019 suona come una vaga speranza, non un progetto solido. Si promette allora di far tornare i conti con la crescita, ma è probabile? Il crollo del valore dei titoli di Stato da metà maggio in poi ha alzato il costo di finanziamento e eroso il capitale delle banche, che infatti già da giugno si sono ridotti i prestiti alle famiglie (-2%) e alle imprese(-8%). Una stretta al credito è dietro l’angolo. Fra gli osservatori europei c’è chi pensa che queste siano circostanze tipiche di una recessione, non della ripresa più forte che prevede il governo. Per non parlare poi della sua (teorica) promessa, degna di un ordoliberista tedesco, di ridurre il deficit nel 2021 proprio quando la crescita frenerà. Insomma i conti non tornano e le tensioni possono avvicinarsi a un punto di rottura. Forse, è quello che qualcuno cercava dall’inizio.