Poche sere fa Luigi Di Maio teneva fra le mani in diretta tivù un appunto perché i telespettatori potessero leggere: erano le cifre del deficit pubblico dell’Italia in rapporto al prodotto lordo dal 2014. Il vicepremier di M5S voleva mostrare che non dovrebbe esserci scandalo se l’esecutivo populista programma un disavanzo al 2,4% nel 2019: negli anni scorsi i governi guidati dal Pd hanno chiuso gli esercizi con saldi a volte anche più in rosso. In questo c’è più continuità che cambiamento, oggi. Non sorprende che Di Maio si senta oggetto di un trattamento discriminatorio.
Ciò che però il vicepremier non è riuscito a spiegare è perché questa discriminazione avviene sui mercati proprio ora: lo spread (premio al rischio) dei titoli decennali italiani su quelli tedeschi è ai massimi dal primo aprile 2013. Gli investitori percepiscono qualcosa dell’Italia che li respinge, anche se sulla carta il deficit non sta cambiando di molto dai tempi recenti.
Di Maio troverebbe una risposta a questo enigma se guardasse a certi derivati chiamati credit default swap (cds), dal 26 settembre in poi. La funzione di quei titoli è simile a quella di una polizza di assicurazione contro un incidente d’auto: se è lo Stato ad avere un incidente — non paga i creditori nei tempi e modi previsti — chi ha comprato quei derivati ha diritto a un rimborso pieno da parte di chi li ha venduti, spesso grandi banche. Queste ultime contano di guadagnare offrendo quei derivati perché, come per le normali polizze, i cds hanno un premio e questo diventa più caro quando la percezione di rischiosità di un debitore sale. Il costo di assicurarsi contro il default dell’Italia aumenta dunque con le preoccupazioni che il debito pubblico non venga onorato.
Ciò che rivela molte ragioni dell’esplodere dello spread negli ultimi giorni è in un dettaglio: unicamente i cds emessi negli ultimi anni assicurano non solo contro il rischio di default, ma anche contro quello che un debito venga onorato in una nuova moneta nazionale svalutata (non più in euro). Dunque la differenza di costo per poter avere le vecchie e le nuove polizze rivela quanto gli investitori temano per i conti pubblici di per sé oppure quanto invece temano proprio che l’Italia esca dall’euro. Più sale quella differenza, più il timore di rottura della moneta è evidente. Essa aveva toccato i massimi degli anni recenti in maggio, dopo che la prima bozza di «contratto» di governo pentastellato prevedeva il referendum per l’Italexit. Ma dal 26 settembre scorso quello scarto si è di nuovo impennato e non è lontano dai record di quattro mesi fa. In altri termini dal 26 settembre gli investitori hanno ripreso a pensare che l’Italia possa uscire dall’euro; è anche questo fa salire lo spread così tanto.
La ragione della svolta è semplice: il garante dell’impegno sull’euro era Giovanni Tria, che il 9 giugno al Corriere aveva assicurato che il governo non voleva uscire e avrebbe evitato di trovarsi nelle condizioni di doverlo fare. La parola del ministro dell’Economia aveva subito calmato i mercati. Ma ora vale meno, perché tutti hanno visto che per Lega e M5S è stato un gioco da ragazzi smantellare il suo impegno sul deficit. I mercati sanno che non possono più fare affidamento sul ministro come prima, neanche per quanto riguarda l’impegno sull’euro. Smontando la credibilità di Tria, i vicepremier Di Maio e Salvini avranno forse guadagnato qualche miliardo di spesa in più, ma hanno fatto perdere al Paese un fattore fondamentale: un creditore non è più certo della moneta nella quale sarà rimborsato, dunque vuole interessi più alti per prestare.
Per la Banca centrale europea Mario Draghi nel luglio del 2012 risolse lo stesso problema dicendo che avrebbe fatto «qualunque cosa» («whatever it takes») per proteggere l’euro. Per l’Italia l’unico modo di ritrovare la stabilità oggi è che, dopo Tria, anche Salvini e Di Maio pronuncino il loro «whatever it takes». Oppure dovranno assumersi la responsabilità di non averlo fatto.