L’economia si basa sulla conoscenza: per essere competitive le nazioni devono possedere industrie specializzate, che sappiano trasformare le materie prime in elettronica, nei carburanti che fanno girare auto e macchinari e nei polimeri che sostanziano plastiche e materiali. C’è da sostenere l’innovazione: tenere il passo negli ospedali, ammodernare le reti con cui scambiamo dati e inventare stratagemmi per convivere con l’ambiente.
Se il sapere è il motore della sopravvivenza, trasferire i concetti è fondamentale quanto bere e mangiare. Lo sa bene Maurizio Fermeglia, ingegnere chimico e rettore dell’Università di Trieste, tra i promotori di «Trieste Next», che dal taglio del nastro dell’evento, ha dovuto spiegare alla platea perché non possiamo fare a meno della divulgazione scientifica, pena l’esclusione dal progresso e l’involuzione al passato.
Professore, si parla di «terza missione dell’Università», dopo didattica e ricerca, in riferimento alla creazione di servizi per la società. A che punto è l’obiettivo?
«Per molti aspetti ancora disatteso, perché non risulta sempre semplice dialogare a tutti i livelli per convertire il know-how che produce l’università in impresa. Eppure, non è più eludibile questa missione. Dobbiamo immaginare la scienza al vertice di un triangolo che abbia alla base la tecnologia e la società: i soggetti sono interdipendenti, perché non possono esserci servizi senza ricerca di base e applicata. Nonostante ciò ampi strati della società rifiutano il dialogo. Un tempo l’ignoranza era un diritto, oggi sembra essere per molti un dovere: mi riferisco al diffuso antiscientismo che, per esempio, trova sfogo nelle polemiche sui vaccini o tra chi crede che la Terra sia piatta».
I social contribuiscono a veicolare bufale e antiscientismo, ma non è anche vero che c’è più spazio per gli scienziati per intervenire?
«Vivo sui social anch’io e vedo tantissima riluttanza nell’ascoltare gli esperti. È vero che, tecnicamente, abbiamo lo stesso spazio di complottisti e fabbricatori di fake news, ma purtroppo chi crede in certe sciocchezze cerca solo di rafforzare le proprie convinzioni, non si connette per informarsi e raramente cambia idea».
Così, però, gettiamo la spugna. Se parliamo solo a chi sostiene già i valori della scienza non rischiamo di essere autoreferenziali?
«Non credo: la strategia dev’essere quella di fare rete, creare ponti tra ricercatori, operatori della salute, giornalisti e persone che desiderano imparare. Rafforzare il nostro legame è l’unico modo per far valere i valori del progresso e della scienza nelle sedi importanti, e non tanto sui social. Quindi dobbiamo rivolgerci alle scuole e ai giovani, cioè a chi vuole ascoltare, e lasciare perdere chi è già ideologizzato».
Con quali strumenti?
«Dobbiamo stare anche sui social, ovviamente, ma è sbagliato pensare di convincere le persone con un tweet o un post su Facebook e un’immagine allegata. Credo, invece, nelle manifestazioni pubbliche, come i festival. Sono occasioni che attirano gente di ogni provenienza culturale, che partecipa non necessariamente perché è appassionata di scienza».
Se l’intento è informare e formare, è necessario fare sì che i festival dedicati alla divulgazione non abbiano uno scopo solo ludico o didascalico. Come fare?
«Creando una narrazione interessante e coerente. L’unico modo per coinvolgere anche il senso civico delle persone è permettere loro di essere protagoniste delle nostre idee. Dobbiamo dimostrare che i temi della scienza sono anche i loro: Ogm, cibo “bio”, cambiamento climatico, embrioni, fine vita e altri. Come si vede da questi esempi il sapere ci include o esclude dalla società, a seconda della priorità che gli diamo, come cittadini. E ci permette di sopravvivere nel mercato globale, competere e progredire, come nazioni. Se saremo efficaci nel rendere coscienti le persone del fatto che la scienza è uno strumento da usare e non una lezione da subire, avremo fatto buona divulgazione e reso un servizio utile ai singoli e alla collettività».
*Tutto Scienze, 26 settembre 2018
Maurizio Fermeglia, rettore dell’Università di Trieste, ha partecipato venerdì mattina all’inaugurazione di Trieste Next e agli incontri “I ricercatori che mancano alle imprese” – insieme a Fabio Dal Bello, scientific & QC director Sacco, Germano Scarpa, presidente Biofarma, e Filiberto Zovico, fondatore di ItalyPost e autore di “Nuove imprese. Chi sono i champions che competono con le global companies” (Egea) – e “Viva la robolution: come i robot influenzeranno il mondo del lavoro“, insieme a Maria Chiara Carrozza, scienziata, direttore scientifico Fondazione Don Gnocchi e già rettore Scuola Superiore Sant’Anna, e Giovanni Tomasin, giornalista de “Il Piccolo”.