Il valzer di riunioni è già iniziato. Le associazioni territoriali delle imprese, in ogni angolo d’Italia hanno messo intorno al tavolo giuslavoristi e avvocati per aiutare le aziende a districarsi con il decreto dignità. E la parola d’ordine degli esperti è stata quasi sempre la stessa: “principio di precauzione”. Ovvero, visti la reintroduzione delle causali, le incertezze delle norme transitorie e i nuovi limiti di durata dei contratti a tempo determinato (da 36 a 24 mesi), meglio lasciarli scadere e, semmai, sostituirli con altri contratti a termine. E in ogni caso allinearli da subito al tetto dei due anni. Il tutto, almeno a parole, per scongiurare derive dei contenziosi. Insomma, l’esatto contrario dell’obiettivo sbandierato dal vicepremier e ministro Luigi Di Maio: frenare il lavoro precario e incentivare i contratti a tempo indeterminato.
Oltre che la conferma del mantra della cultura imprenditoriale italiana:interpretare ogni norma come scorciatoia verso il taglio dei costi. Se il buon giorno si vede dal mattino, dunque, il massimo che riuscirà a conseguire il “decreto dignità” è un aumento del turnover o, meglio, del turnover della precarietà. Naturalmente ancora non esistono dati d’insieme (il provvedimento è entrato in vigore a luglio), ma i segnali che arrivano confermano l’emergenza. L’ultimo in ordine di tempo da Trieste, dove la Flex (azienda elettronica della multinazionale americana Flextronics) ha “pareggiato” tutti i 237 contratti a termine (su un totale di 650 dipendenti diretti) portandoli a scadenza il 31 gennaio 2019. Del caso si occuperà una riunione con sindacati, impresa e Regione convocata per il 3 ottobre al ministero dello Sviluppo Economico, quando dunque Di Maio toccherà con mano per la prima volta gli effetti del suo decreto. Quella della Flex si aggiunge ad altri casi , a cominciare da Milano dove nelle aziende municipalizzate sono quasi 700 i precari con i rinnovi a rischio tra Amsa (la società della nettezza urbana), Milano Ristorazione e Airport Handling della Sea: «Ci sono solo tre modi per tutelare i precari — ha spiegato Eros Lanzoni, segretario della Cisl milanese, in un’apposita riunione convocata dal Comune — assumerli a tempo indeterminato, farli assumere dalle agenzie di somministrazione o fare un accordo in deroga». E ancora, i precari delle Poste nella provincia di Foggia, i dipendenti della LFoundry di Avezzano (L’Aquila), altre municipalizzate e aziende di tutti i settori manifatturieri.
«Anche nel commercio — racconta Francesco Iacovone, dell’esecutivo nazionale dei Cobas — abbiamo evidenza di lavoratori a termine non richiamati. Sia le aziende che le agenzie di somministrazione stanno seguendo il principio di precauzione. Una scelta con effetti pesanti in un settore già colpito dalle crisi aziendali, come dimostrano ad esempio le vicissitudini della Unicoop Tirreno. Il fatto è che la dignità non si introduce per decreto, semmai ripristinando l’articolo 18». Anche Francesco Seghezzi, direttore del centro studi Adapt, coglie i segnali del possibile flop: «Solo le imprese più “ricche” scelgono la strada della stabilizzazione. In settori come la farmaceutica, ad esempio, dove le aziende macinano utili e non vogliono sperperare la formazione. Tutte le altre di fronte all’obbligo di causale e alle difficoltà interpretative del regime transitorio, preferiscono sostituire i lavoratori a termine. Lo confermano i casi delle municipalizzate, dove ci sono meno competenze degli addetti dove la forte sindacalizzazione prefigura maggiori contenziosi». Il turnover della precarietà, appunto. E anche nella Cgil, che pure ha apprezzato il cambio di direzione rappresentato dal decreto dignità, spuntano i primi dubbi: «Manca una visione complessiva di politica industriale e del lavoro — dice Massimo Bonini, segretario Cgil a Milano — cosa vuoi stabilizzare se non c’è occupazione? Questi ragazzi vorrebbero un contratto a tempo indeterminato e invece gli tagliano di un anno quello a tempo…». Insomma, sostituire un precario con un altro precario: ecco il rischio della dignità introdotta per decreto.