In pensione prima o assegni più alti per gli anziani meno abbienti? Più fondi alle famiglie povere o meno tasse alle partite Iva? Pace fiscale anche per i ricchi o solo per le piccole somme? La Finanziaria 2019 ha sempre più le sembianze di due progetti paralleli. Da un lato le attese di imprese e lavoratori del nord, dall’altra statali e famiglie del Sud. La propaganda post-elettorale del contratto di governo (valore cento e più miliardi di euro) è un ricordo: i vicepresidenti del Consiglio e leader dei rispettivi partiti Matteo Salvini e Luigi di Maio devono decidere come accontentare i rispettivi elettorati senza mandare all’aria i conti. Ormai il Movimento 5 Stelle e la Lega non nascondono di volersi spartire equamente il margine di flessibilità che l’Unione europea è disposta a concedere all’Italia. La coerenza del disegno e l’efficacia per chi chiede più crescita restano in secondo piano.
Tramontata l’ipotesi di un primo taglio dell’Irpef finanziato dall’abolizione degli ottanta euro (o è significativo o si trasforma in un boomerang), la Lega ha deciso di concentrarsi su pensioni e partite Iva, i Cinque Stelle sull’allargamento dei redditi minimi. Ma far tornare i conti è comunque impossibile, anche perché nel frattempo il calo dell’occupazione ha fatto scattare l’allarme in casa Lega e spostato l’attenzione sulle imprese: sul tavolo ci sono una forte detassazione Ires per chi reinveste gli utili aziendali, la conferma degli incentivi per le cosiddette imprese 4.0 e del bonus assunzioni per chi ha meno di 35 anni.Le pensioniL’unica via d’uscita per Salvini è rinunciare a «quota cento» per i pensionandi (la somma di requisiti anagrafici e contributivi) accettando l’ipotesi del Tesoro di limitare il piano all’uscita agevolata degli over 62 finanziata dalle aziende. I Cinque Stelle potrebbero accontentarsi delle “pensioni di cittadinanza”, in sostanza un aumento degli assegni minimi. Insomma, la coperta è sempre più corta, e tagliarla in due non rende la soluzione più semplice. Il braccio di ferro quotidianoSu ogni misura è un braccio di ferro quotidiano.
Ieri Di Maio ha ipotizzato tre aliquote forfettarie per le partite Iva, il sottosegretario leghista all’Economia Massimo Bitonci dice invece che ce ne saranno due: una al quindici per cento per chi ha redditi fino a 65mila euro, una al venti per cento fino ai centomila ai quali aggiungere un regime al cinque per cento per gli under 35. Inutile dire che la prima ipotesi è meno onerosa, dunque lascia più spazio ai desiderata dei Cinque Stelle. L’Europa è disposta a riconoscere una flessibilità per spingere il deficit fino all’1,7 per cento, Salvini e Di Maio vorrebbero almeno il 2,1. La differenza vale più di sei miliardi. La pace fiscalePer trovare risorse si stanno battendo due strade: un po’ di tagli alla spesa, un esercizio impopolare lasciato al Tesoro, e un condono fiscale che il governo preferisce chiamare “pace”.
La prima è dolorosa, la seconda permette un’entrata una tantum, dunque inutilizzabile per coprire spese permanenti come la controriforma delle pensioni. C’è poi un altro problema: il Movimento Cinque Stelle è contrario ad allargare la “pace” alle grandi somme. Ecco perché dopo aver promesso un provvedimento allargato alle cartelle fino a cinque milioni di euro, ora è la stessa Lega a proporre di fermarsi a un milione. Sui veri ricchi un intervento ci sarà, ma in quel caso assumerà la forma più educata della “voluntary disclosure”, ovvero l’autodenuncia dei redditi non dichiarati all’estero. Per ammorbidire i Cinque Stelle Bitonci dice che mezzo miliardo di quel gettito verrà destinato alle vittime dei crac bancari. Per rassicurare l’Europa, il pacchetto fiscale sarà in un provvedimento collegato alla manovra. A Bruxelles non sono per nulla rassicurati, e aspettano di vedere quel che uscirà dal passaggio parlamentare. Solo allora sarà chiaro quanto sarà costato il braccio di ferro fra i due leader del governo giallo-verde.