Accettare una frenata dell’economia, con il rischio di vedere crescere le tensioni sociali? Oppure riaprire il rubinetto degli stimoli, gonfiando ancora una bolla di debito già alla massima pressione? Non ha soluzioni indolori il dilemma che Xi Jinping si trova di fronte. Il più importante per chi basa il proprio potere sulla promessa di benessere. Dopo vent’anni di corsa forsennata, la Cina ha messo in conto un rallentamento: per il 2018 l’obiettivo di crescita è fissato al 6,5%, due decimi in meno dello scorso anno. Mese dopo mese però la decelerazione appare sempre più decisa, e quindi più esposta all’offensiva tariffaria di Donald Trump. L’ultimo presagio nefasto, ieri, è stato il dato sugli investimenti, pubblici e privati, vero carburante della locomotiva. Tra gennaio e agosto sono cresciuti del 5,3%, cifra che farebbe invidia a qualsiasi altra economia, ma che qui vale il minimo da un quarto di secolo.
Sulla carta è proprio quello che Xi voleva. Il contenimento del rischio finanziario, con un debito complessivo al 260% del Pil, è una delle tre battaglie prioritarie del presidente eterno, insieme alle lotte contro povertà e inquinamento. Gran parte di quell’esposizione è imboscata nei bilanci di banche, imprese o enti locali, effetto di un decennio di politiche espansive e ricerca matta e disperatissima dello sviluppo. Per questo alla fine del 2016 la Cina ha lanciato una campagna di “deleveraging”, con l’idea di disintossicarsi dalla droga del denaro facile. Non certo una decrescita, qui suonerebbe blasfemo, ma uno spostamento di risorse dai settori maturi, come industria pesante e immobiliare, verso quelli più produttivi e tecnologici.
Solo che la pulizia è un processo doloroso, fatto di fabbriche da chiudere, investimenti persi e bond in default, mai così alti come in questi mesi. Senza contare Trump, le cui minacce ora stanno diventando dazi.
Ancora non si misurano effetti sull’export cinese, la voce del Pil che continua a tirare di più, ma si notano eccome sul clima di fiducia dentro la Cina: da due mesi le vendite di automobili nel Paese registrano un inaudito segno meno, mentre dall’inizio dell’anno la Borsa di Shanghai ha perso oltre il 20%, ai minimi dal 2014. Così nelle ultime settimane il pendolo delle politiche comuniste è tornato a oscillare decisamente dal lato dell’espansione. La Banca centrale ha adottato delle misure per incoraggiare gli istituti a fare credito, mentre il governo ha varato un pacchetto di stimolo fiscale, sollecitando gli enti locali ad emettere speciali bond per finanziare ferrovie e altre grandi infrastrutture.
Per questo il brutto dato di ieri sugli investimenti ha sorpreso in negativo, facendo passare in secondo piano quelli più incoraggianti su consumi e produzione industriale. «La politica espansiva finora ha fallito», scrivono gli analisti di Capital Economics, anche perché nel frattempo sta proseguendo la stretta su altri settori, per esempio l’immobiliare, creando una situazione contraddittoria. «Se gli investimenti non riprendono a settembre il rischio per la crescita sarà molto grande», dice Standard Chartered. E per evitare quella che allora potrebbe davvero diventare una brusca frenata, Ing si aspetta che Pechino prema ancora di più sull’acceleratore, iniettando risorse per 700 miliardi di dollari quest’anno e altrettanti il prossimo, stimolo di fatto pari a quello varato all’indomani della grande crisi. Xi si affida all’antica medicina, credito e infrastrutture, per guadagnare tempo verso la grande transizione tecnologica. La stessa medicina da cui la Cina è diventata dipendente.