Non so se il ministro dello Sviluppo economico (le parole contano!) Luigi Di Maio ne avesse contezza ma l’iniziativa da lui avviata di rimettere in discussione le aperture domenicali della grande distribuzione ha una valenza di quelle che siamo abituati a chiamare «sistemiche».
Detto in parole più rozze, rischia di immettere negli ingranaggi del commercio italiano non qualche granello di sabbia ma un bastone. Anche perché i budget per il 2019 si chiudono in questi giorni e gli operatori non sanno con quali regole faranno i conti il prossimo anno.
È sicuramente vero che negli anni scorsi si sono moltiplicati a dismisura i grandi punti vendita e le amministrazioni locali hanno favorito queste iniziative pur di rimpinguare i magri bilanci municipali con gli oneri di urbanizzazione.
È altrettanto chiaro che una crescita disordinata ha generato sovrapposizioni e anche cannibalizzazioni di un canale sull’altro ma tutto ciò è avvenuto quando non erano state ancora percepite le scosse telluriche che stavano maturando nel «sottosuolo». Per un doppio ordine di cause, il cambiamento dei modelli di consumo e il boom dell’e-commerce. Un attento osservatore del sistema come Mario Sassi sostiene che ci sarebbe voluta per controbilanciare questa tendenza una robusta iniezione di innovazione, organizzativa e culturale. Non c’è stata e le aperture domenicali e gli orari h24 sono stati la discontinuità prevalente, sono serviti di fatto a tenere in piedi i bilanci e ad evitare dolorose ristrutturazioni. In qualche maniera, specie nelle grandi città, hanno incrociato il mutamento degli stili di vita e hanno rilegittimato la funzione della grande distribuzione agli occhi quantomeno della parte più moderna dei consumatori.
Con l’e-commerce e la straripante iniziativa di Amazon le scosse però sono state avvertite da tutti, la concorrenza è arrivata fuori dal settore, dalla logistica, e la grande distribuzione che solo qualche anno fa sembrava essere un gigante ha mostrato di avere i piedi di argilla.
Nel campo delle grandi superfici una risposta, seppur parziale, era venuta dagli outlet e dai centri commerciali che, pur costruiti spesso in posizioni improbabili, sono diventati un’offerta vincente rivolta a soddisfare i turisti (i cui flussi sono in aumento) e capace di aiutare l’industria riciclando i campionari da smaltire. Oggi si calcola che i due terzi dei clienti degli outlet abbiano passaporto straniero. In più questi centri dello shopping hanno nel tempo ampliato la loro offerta, attorno a loro sono cresciute le più svariate attività collaterali, dai ristoranti ai centri medici diagnostici e vengono organizzate persino stagioni di concerti. La stragrande maggioranza di loro funziona a pieno regime proprio la domenica perché vuoi per le distanze vuoi per l’ampiezza delle superfici raggiungerli implica una decisione di viaggio. Senza lavoro festivo, almeno in questo caso, di fatto si azzera il business.
La pressione concorrenziale e la difficoltà a portare a casa sufficienti margini di profitto hanno condizionato anche le relazioni sindacali del settore. Se gli affitti nel frattempo non diminuivano e i clienti sì, se l’inflazione bassa non dava possibilità di usare la leva dei prezzi, la conseguenza è stata che il contratto nazionale di lavoro non è stato rinnovato, alcuni operatori hanno fatto saltare anche la contrattazione aziendale e non si è — tranne pochi casi virtuosi — messo in moto uno scambio virtuoso tra lavoro festivo, nuove assunzioni e/o maggiorazioni salariali. L’elemento che fa riferimento alla condizione dei lavoratori della grande distribuzione è decisivo perché è proprio sulla loro insoddisfazione che fa leva l’iniziativa di Di Maio.
Il ministro non entra in terra incognita (lo stato del settore) e si limita a giocare i valori familiari tradizionali contro il mercato, come se in una democrazia moderna fossero inconciliabili. Chi si oppone alla sua iniziativa — in primis le organizzazioni di categoria — è da questa ricucitura che deve ripartire. Bisogna regolamentare l’obbligatorietà evitando abusi, occorre valorizzare la volontarietà e si possono introdurre accordi di welfare aziendale che si facciano carico delle esigenze delle famiglie dei dipendenti. Avviene in migliaia di aziende manifatturiere, si tratta solo di copiare le pratiche migliori.
Lo scenario alternativo è quello di un avvitamento del settore, ristrutturazioni, tagli e chiusure. Francamente non ne abbiamo bisogno né noi né i dipendenti della grande distribuzione.