Niall Ferguson, oggi a Stanford dopo molti anni di insegnamento a Harvard, è uno storico scozzese di 54 anni con un occhio attento al presente e anche al futuro. Il suo ultimo saggio «La piazza e la torre» (Mondadori) descrive e per molti aspetti anticipa l’insurrezione populista che ha investito l’Unione europea negli ultimi anni.
Professor Ferguson, lei vede nella «torre» i palazzi di Bruxelles e nella piazza le reti dei social media con cui si organizzano i partiti populisti?
«La Ue mi pare il classico progetto del ventesimo secolo, dotato di una struttura gerarchica e di un notevole potere concentrato a Bruxelles. Questo è esattamente il tipo di potere che adesso viene sfidato da una rivoluzione giocata sulla rete. I social media sono diventati forme molto potenti di mobilitazione contro gli establishment nazionali e le élite politiche nazionali che sono alleate con le gerarchie europee».
Cosa le fa pensare che i social network abbiano davvero un ruolo politico così importante?
«Be’, è interessante che le due figure politiche dominanti in Italia, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, abbiano su Facebook due o tre volte più seguaci di Matteo Renzi e moltissimi più di Silvio Berlusconi o chiunque altro. Aveva ragione Donald Trump nel 2016, quando disse che avrebbe vinto perché dominava sui social network. Quello è il migliore anticipatore dei risultati elettorali. Salvini ci ha fatto la sua campagna, lui capisce la nuova politica. Se uno si guarda in giro in Europa, i populisti di successo sono tutti persone che capiscono i meccanismi di Facebook e Twitter. Usano la rete per dare l’assalto alla torre».
Il presidente francese Emmanuel Macron è parte della «torre», del vecchio establishment, o parte dell’insurrezione della «rete»?
«Macron ha avuto l’idea giusta per un nuovo look delle idee dell’establishment. Ha usato un nuovo nome, En Marche, e qualche tecnica presa dai social media e dalla nuova politica. Ma è vino vecchio in una botte nuova, come si capisce dalla caduta rapida della sua popolarità dopo pochi mesi di potere. Chi dice che con lui l’onda lunga del populismo sta tornando indietro dovrebbe leggere Sottomissione di Michel Houellebecq».
Cosa intende dire?
«Quando arrivano le prossime elezioni sarà chiaro che la strategia di Macron non poteva durare. Il rischio di conquista populista in Francia non era alle elezioni scorse, è alle prossime. Riformare la Francia come vuole fare lui è duro, non duro come lo è fare riforme in Italia, ma comunque duro. La sua agenda federalista europea si è scontrata sui veti di molti Paesi del Nord Europa. Penso che Macron fallirà e il populismo vincerà in un numero sempre maggiore di Paesi. A partire dalla Svezia, dove potrà avere una forte affermazione alle elezioni imminenti».
Quanto pensa che durerà questa ondata?
«Be’, partiti populisti sono al governo in sei Paesi europei e hanno il 20% dei consensi o più in undici. Potrebbero raddoppiare la loro influenza nei prossimi due o tre anni».
Lei dice che Macron è vino vecchio in una botte nuova. Ma il vino dei populisti non è vecchio di novant’anni?
«Quando ho sentito il vostro ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, ho imparato oggi qui al Forum Ambrosetti che il governo italiano non è una coalizione fra un partito populista di destra e uno di sinistra. È una coalizione fra populisti e tecnocrati. Di populista c’è il messaggio sui social media. Ma come gli alti funzionari che nell’amministrazione americana si oppongono alle direttive di Donald Trump e le bloccano, anche in Italia la continuità dei tecnocrati esiste. Il programma iniziale mi pare già messo da parte».
Che vuole dire?
«Che è come Alexis Tsipras in Grecia nel 2015. Arriva un punto in cui ci si accorge che c’è una realtà monetaria e di bilancio. Giusto il messaggio sui social può essere demagogico, la sostanza non cambia molto. Tutti dicono che questo è come il populismo degli anni ’30. A me sembra piuttosto una rivolta popolare da fine ‘800».