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Marco Mazzucchelli è uno dei bankers italiani più noti all’estero per aver lavorato, negli ultimi trent’anni, con alcuni dei più grandi gruppi internazionali. Oggi è chairman strategy committee di KredietBank Luxembourg.
Dottor Mazzucchelli, le banche italiane sembrano meno competitive delle concorrenti europee.
«Tipicamente il motore di una banca generalista funziona a cinque cilindri: corporate and investment banking, risparmio gestito e protezione, credito al consumo, le attività di credito delle filiali e il transaction banking. Di questi cinque cilindri, le prime dieci banche italiane se ne sono private dai due ai quattro. A parte Intesa Sanpaolo, che continua ad avere il contributo dell’intero powertrain, le altre dispongono di tre, o meno, fonti di ricavo. E alcune, come Mps, Creval, Carige, Popolare di Sondrio sono rimaste di fatto con un solo cilindro».
Ma in alcuni casi un cilindro può essere sufficiente.
«Perché lo sia davvero, quel cilindro deve essere piuttosto grande, perché altrimenti non riuscirebbe a vincere l’inerzia dei cilindri spenti. Uscendo dalla metafora, se ti sei limitato a un solo business, quello della banca rete, affinché tu abbia una posizione sostenibile rispetto ai competitor è necessario che in quel business tu abbia una quota di mercato rilevante. Se si fa soltanto un mestiere è necessario raggiungere una massa critica minima che oggi non tutti hanno».
Che cosa significa «massa critica minima»?
«Proviamo a definirla partendo da un ragionamento al contrario. Se si desidera avere un ritorno sul capitale investito del 10 per cento, che è ragionevole vista la rischiosità del business, tenuto conto degli assorbimenti patrimoniali di vigilanza, è necessario contenere la base di costi entro la soglia del 50 per cento dei ricavi, le Non-Performing-Exposure (Npe) strutturali entro il 5 per cento dell’attivo di credito e generare un margine di intermediazione minimo nell’ordine dei 5 miliardi di euro. Se osservo le total revenue del sistema bancario italiano, a parte Intesa Sanpaolo e Unicredit che viaggiano a multipli, gli altri istituti generalisti rimangono al di sotto di questa soglia: Banco Bpm è il gruppo che si avvicina di più, con 4,5 miliardi, Ubi arriva a 3,7, Mps 3,4 e poi si scende fino a banche che sono sotto il miliardo».
Un quadro a tinte fosche.
«Queste banche che sono così piccole dal punto di vista del margine di intermediazione complessivo e che si basano solo su una linea di business se non vanno verso un processo di aggregazione importante sono destinate ad estinguersi, perché non avranno mai la massa critica sufficiente per restare autonomamente sul mercato».
Ma il momento non è semplice.
«Sulla spinta del regolatore siamo arrivati ad avere oggi in Italia degli assetti patrimoniali più congrui: le banche sono più solide di quanto non fossero tre anni fa. Però il prezzo pagato per avere quel tipo di patrimonializzazione è stato quello di compromettere pesantemente le fonti dei ricavi».
Perché si è arrivati a questo?
«In alcuni casi sono state decisioni prese tanto tempo fa. In altri, perché vi erano solo due strade: o fare aumenti di capitale più poderosi, ma questo avrebbe significato una diluizione ancora più dirompente per gli azionisti esistenti e quindi non è stata ben vista, oppure si poteva vendere quello che di valore c’era in casa. Soprattutto le cosiddette “fabbriche”. Il che ha portato sì ad avere ratio patrimoniali che rispettavano le prescrizioni della Bce, ma privandosi di fonti prospettiche di reddito importanti, i famosi cilindri».
Il tutto in un’industria matura.
«Sì, perché il mondo non sta fermo, si registrano trend evidenti, potenti venti contrari che minano la redditività del business bancario. Il principale è quello dell’open banking, che deriva la sua forza dalla digitalizzazione dei servizi, dalla competizione di soggetti non bancari e non regolati ed infine dalla stessa regolamentazione, in particolare dalla Direttiva Psd2 che obbligherà le banche a rendere accessibile a soggetti terzi il proprio database di clientela. Tutto questo erode profondamente la redditività delle aziende di credito, ed è necessario quindi navigare in modo molto più dinamico ed efficiente per rimanere a galla».
Escluse Intesa e Unicredit, una situazione molto delicata.
«Quasi tutti i piani industriali delle principali banche si basano sul de-risking, e quindi sulla cessione di tutte le attività non in bonis, dagli Npl agli Utp. E in parallelo l’enfasi è posta su una forte riduzione dei costi. Tutto legittimo e giustificato, ma non si può pensare di aver una strategia di medio termine sostenibile nel banking se ci si limita a fare queste due cose. Dei ricavi non parla quasi mai nessuno, e non se ne parla perché è più difficile farli crescere quando si sono vendute le “fabbriche”. Oggi molte banche possono agire solo sul margine di interesse, quindi sul credito, con i relativi costi e rischi, e residualmente sulla parte di margine commissionale riconosciuto al distributore».
Ma alle banche finisce solo una minima parte del valore aggiunto.
«Il retail and commercial banking sta diventando l’unica industria al mondo in cui controllare l’ultimo miglio, cioè avere il presidio della relazione con il cliente, forse non penalizza ma premia meno che in altri business».
Una situazione compromessa?
«No, ma va tenuto conto di un ulteriore fattore negativo regolamentare che agirà nei prossimi anni. La combinazione tra quanto è stato stabilito con il famoso Addendum dell’Ssm sugli accantonamenti prudenziali e il principio contabile Ifrs9 sui nuovi prestiti fanno sì che il portafoglio dei crediti dovrà praticamente essere gestito in logica mark-to-market, come fosse un portafoglio di trading. Una vera rivoluzione nei modelli di rischio. In sintesi, i mercati resteranno molto vigili sul sistema bancario perché si accorgono che la redditività si sta destabilizzando in modo quasi irreversibile».
Eppure le recenti semestrali hanno consegnato risultati buoni. In Borsa però sono state giornate pesanti.
«Purtroppo sui mercati è riapparso il rischio sul debito sovrano dell’Italia. E le banche italiane hanno in portafoglio troppo titoli di stato, Btp, rispetto al proprio capitale di base: Banco Bpm detiene government bonds per un importo pari al 250% del proprio core equity, Mps è al 258%, Bper al 150%, Creval al 260%, Ubi al 145%. Per i due leader le percentuali sono inferiori ma si traducono comunque in valori nominali assoluti molto impegnativi. Credo sia anche questo uno dei motivi per cui persino le migliori banche italiane seguitino a trattare in Borsa sotto il valore di libro».
Ma le semestrali erano buone.
«I bilanci semestrali sono stati uno specchio fedele di quanto discusso: meglio i gruppi più integrati e diversificati, più stretto e tortuoso il percorso per gli altri. Il mercato, già di per sé diradato in questo agosto faticoso, ha ravvisato una complessiva perdita di slancio e brillantezza, un campanello di allarme in uno scenario di rallentamento economico e di consolidamento del premio per il rischio Paese. Ci aspetta un “inizio di Campionato” non banale».
*L’Economia, 13 agosto 2018