Certe tradizioni sono dure a morire e così la vertenza Ilva si è chiusa dopo una lunga no stop di 18 ore che ha riportato all’onore delle cronache vecchi riti dell’azione sindacale. Ma le continuità con il passato si limitano alla forma, nella sostanza invece la soluzione trovata all’intricata vicenda della più grande acciaieria d’Europa contiene una novità: è il primo accordo sull’Italia industriale di domani sottoscritto con il concorso del governo populista che guida il Paese. Perché potesse concretizzarsi abbiamo vissuto una faticosa gestazione fatta di proclami televisivi, verbose dirette Facebook , ultimatum e penultimatum, duelli rusticani tra il ministro in carica e il suo predecessore. Se ci chiedessero se tutto ciò fosse evitabile non potremmo che rispondere affermativamente e le responsabilità sono fin troppo chiare.
L’Ilva comunque torna all’onore del mondo industriale ed è un’ottima cosa. Perché ad onta di tutti i veleni fatti circolare sulla nostra classe di «prenditori» siamo una potenza industriale del mondo moderno. Lo siamo rimasti nonostante i sette lunghi anni di penitenza e malgrado si siano imposte sulla scena globale potenze manifatturiere che si chiamano Cina e India, come ben sanno proprio i siderurgici. Poi, per carità, tutti desidereremmo imprenditori più coraggiosi e insieme lungimiranti, vorremmo produrre servizi di innovazione per aiutare le imprese a sfidare il mondo.
Ma coltivare queste ambizioni (addirittura olivettiane, come sostengono Davide Casaleggio e alcuni stretti collaboratori di Di Maio) non giustifica certo la denigrazione dell’esistente. Per tutti questi motivi, dunque, l’accordo Ilva è importante, mette in mora il benaltrismo — per rubare una battuta al sindacalista Marco Bentivogli — ed è significativo che alla fine l’abbia voluto e firmato anche il capo politico del Movimento 5 Stelle. Ho pensato in questi mesi che mai e poi mai i ministri grillini avrebbero accettato di rompere con le piccole constituency che sono state importanti nel favorire la loro crescita di consensi: i no Vax, i no Tav, i no Tap, i no Ilva, i no tutto. Ricordavo come fosse stato difficile per la sinistra storica accettare di avere «nemici a sinistra» e di conseguenza ero (e sono) pessimista. Ad oggi non sappiamo come andrà a finire, per un’Ilva che si tira fuori dall’incertezza continua invece l’incredibile balletto dell’autocertificazione delle vaccinazioni. Chi scommette sulla maturazione del gruppo dirigente pentastellato dovrà attendere nuovi riscontri e un test, del resto, lo avremo a brevissimo con la definizione della legge di Stabilità.
Taranto quindi consegna al settembre italiano un atto di discontinuità politica. Da inguaribili ottimisti spereremmo che ciò fosse la premessa di un salto di qualità della lotta politica in Italia. La rondine Ilva come preludio di un autunno responsabile. Il governo deve sapere che quando adotterà soluzioni positive troverà il consenso dell’opinione pubblica, in caso contrario non sarà sufficiente sbandierare i sondaggi per ottenere sconti di giudizio. L’opposizione, dal canto suo, deve ripartire non solo organizzando cortei ma coltivando l’idea che il confronto di merito alla fine paga. Si può essere minoranza nel Paese ma anche da quella scomoda posizione si può produrre egemonia. Infine, il conto dei ritardi Ilva: finora è stato pagato dai lavoratori e dai cittadini di Taranto e la vicenda si presta ad essere letta come metafora del debito di soluzioni che abbiamo con il nostro Sud. I media però un impegno dovrebbero prenderlo: come hanno seguito passo dopo passo l’evolversi della querelle politico-industriale domani potrebbero illuminare tempi e standard della bonifica ambientale perché la città possa respirare. E mai termine suonò più appropriato.