C’è un pericoloso paradosso che sta cominciando a caratterizzare la politica economica del governo: l’esecutivo riesce a commettere danni, pur non facendo quasi nulla. A tre mesi esatti dal giuramento al Quirinale, i provvedimenti del governo si contano sulle dita di una mano. I ministri, a partire dal vice-premier Luigi Di Maio, preferiscono lanciarsi in surreali proclami a proposito del presunto limite del 3% del rapporto fra deficit di bilancio e prodotto interno lordo, che da tempo non è più un obbiettivo di finanza pubblica. Tanto basta, però, per rendere gli investitori italiani e stranieri sempre più preoccupati delle sorti del nostro Paese.
E dire che, almeno prima delle elezioni, Lega e Movimento 5 Stelle avevano promesso una partenza sprint. Alessandro Di Battista aveva assicurato che, una volta al governo, i grillini avrebbero bloccato il gasdotto Tap nel giro di quindici giorni.
Matteo Salvini, invece, si era speso sulle accise sulla benzina, che sarebbero state ridotte addirittura al primo Consiglio dei ministri. Siamo ormai al primo settembre e di questi provvedimenti non c’è traccia.
Del fin qui piuttosto sfaccendato governo gialloverde si ricordano soltanto: il rinvio di sei mesi della fatturazione elettronica per i carburanti; il decreto Di Maio che apporta qualche marginale modifica al funzionamento del mercato del lavoro; e la proroga della riforma delle Banche di Credito Cooperativo. Sui dossier più importanti, come il futuro di Ilva, ci sono stati fin qui solo rinvii. In teoria ci sarebbe solo da rallegrarsi per questo prolungato ozio. Molti dei provvedimenti immaginati in campagna elettorale e poi traslati nel “contratto di governo” rischiano di fare grossi danni al nostro tessuto produttivo, oltre a non aver la minima parvenza di copertura finanziaria. Il problema è che Di Maio e Salvini riescono a far guai anche da fermi. L’asta di titoli di Stato di questa settimana ha portato i Btp decennali a segnare i rendimenti più alti dal 2014. Sul mercato secondario, lo spread con i Bund tedeschi ha superato i 290 punti base.
Negli ultimi tre mesi la borsa di Milano ha perso quasi il 7%, a fronte di perdite assai più contenute di tutti gli altri principali listini della zona euro.
Come spiegare questo paradosso? La prima ragione è l’enorme incertezza sulla strategia economica del governo. A poche settimane dalla presentazione della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, non si ha idea di quali saranno gli obiettivi di finanza pubblica del governo. A fronte del realismo del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, Di Maio e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, preferiscono fare la voce grossa annunciando che il governo potrebbe superare la soglia del 3% tra deficit e Pil.
Peccato che le regole europee prevedano oggi degli obbiettivi di riduzione del disavanzo ben più ambiziosi, vista la fase ancora piuttosto favorevole del ciclo economico. Un deficit anche appena sotto il 3% sarebbe tutto tranne che prudente.
La seconda ragione è l’improvvisazione del governo. Giovedì, Stefano Buffagni (M5S) si è vantato della pessima asta di poche ore prima, sottolineando come fosse andata sold out — ma tralasciando il significato della forte crescita dei rendimenti. Questa marchiana propaganda segue di poche settimane la baraonda che ha accompagnato la scrittura del decreto Di Maio sul lavoro, con provvedimenti riscritti dopo che il governo si era improvvisamente accorto dei potenziali danni all’occupazione. Se questo è l’inizio, figuriamoci la legge di bilancio.