Non sarà forse la politica che sognava Altiero Spinelli quando concepì l’idea di un parlamento europeo eletto dal popolo. Non si vede all’orizzonte un fronte europeista e conservatore opposto a un altro fronte, europeista ma progressista. Non ci sono una destra e una sinistra d’accordo sulla natura dello spazio politico comune come negli Stati Uniti. Si delinea invece un unico campo più o meno europeista dal centrodestra al centrosinistra passando per verdi e parte dei liberali, una sorta di fronte repubblicano europeo. Contrapposto a quello sta prendendo forma una seconda cordata, sfrangiata, piena di profili diversi ma tenuti insieme da un’idea: preferiscono che la propria nazione sia protetta dal resto del mondo, a un’Europa senza frontiere.
Non è la politica che sognava Spinelli, no. È confusa, sporca, segnata da odi, ambiguità e insulti su Facebook. Quindi, in sostanza, è politica vera. Mai così vera, forse tale sul serio per la prima volta da quando quarant’anni fa gli europei iniziarono a eleggere il parlamento dalla duplice, dispendiosa sede di Strasburgo e di Bruxelles.
È l’Europa dei due fronti contrapposti andata in scena ieri nel duello fra Emmanuel Macron e Matteo Salvini. Il giorno dopo i colloqui a Milano fra il vicepremier italiano e il leader «illiberale» di Budapest Viktor Orbán, ha commentato il presidente francese eletto sotto una bandiera europeista: «Se quei due pensano che io sia il loro oppositore, hanno ragione. Non cederò ai nazionalisti e a coloro che fanno discorsi carichi di odio». Salvini non ha perso tempo prima di rispondere. «Il principale avversario di Macron è il popolo francese, a giudicare dai sondaggi. Anziché dare lezioni agli altri spalanchi le proprie frontiere, a partire da Ventimiglia».
È il primo assaggio della grande competizione dei prossimi mesi. Fra il 23 e il 26 maggio quasi 400 milioni di europei sono chiamati ad eleggere un parlamento dai poteri crescenti. Non solo condivide con i governi l’ultima parola sulle leggi in una quantità di campi, dalle banche ai pesticidi; soprattutto, può dare o negare la fiducia alla Commissione Ue che le 27 capitali avranno nominato. Senza l’assenso del parlamento non si forma a Bruxelles un potere che possa vigilare (oppure no) sui conti pubblici e il rispetto delle regole democratiche da parte di ogni governo. Sempre di più, il parlamento europeo è lo snodo che permette a chi vince le elezioni di contare davvero in questo sistema a sovranità ibrida.
La differenza è che stavolta la gara è vera. E la vittoria non è scontata. Non come nel 2009, quando la «grande coalizione» fra il Partito popolare (Ppe) e il Partito socialista europeo (oggi S&D) sfiorò i due terzi dei seggi. Divisi a Roma, Forza Italia e Pd di fatto partecipavano insieme a un governo di Bruxelles dove le famiglie politiche del dopoguerra si sono sempre spartite i posti. La presa ha poi iniziato ad allentarsi nel 2014, quando la «grande coalizione» di Ppe e S&D ha conquistato nell’Europarlamento una maggioranza giusto del 54%; l’avrebbe quasi persa, se nell’annata del 40% Matteo Renzi non avesse portato i suoi 31 eletti del Pd fra le file dei socialisti.
Oggi quella macchina un po’ consociativa si è rotta e l’Europarlamento è diventato contendibile. La partita è fra una maggioranza netta ma declinante di filo-europei e una minoranza montante di sovranisti, uniti almeno nell’idea di impedire che la Commissione Ue si occupi degli affari di casa loro. Specie se governano, come a Roma, Budapest o Varsavia. Raffrontare i risultati delle Europee del 2014 ai sondaggi sugli stessi partiti oggi, nei dieci Paesi che eleggono due terzi degli eurodeputati, fa emergere la realtà nuova. La «grande coalizione» non ha più la maggioranza. In Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia, Romania, Olanda, Svezia e Ungheria — contate insieme — Ppe e S&D ai sondaggi di oggi perdono fra i 60 e i 70 seggi. Scendono di circa trenta sotto la maggioranza a Strasburgo ma circa 15 di quelli sono di Orbán, parte del Ppe ma contrarissimo a una Commissione Ue vigile quale la vorrebbero Macron o Angela Merkel. Il declino della «grande coalizione» è in parte legato al crollo socialdemocratico in Francia o Italia o all’uscita dei laburisti britannici. Potrà essere puntellata da verdi e liberali. Ma persino la cancelliera tedesca rischia perdere cinque dei suoi eurodeputati.
Intanto la destra sovranista avanza: è in grado di conquistare una trentina di seggi europei in Italia e 15 in Germania dove – ricorda Eurointelligence – Alternative für Deutschland è ormai il secondo partito in tre Länder e può diventarlo nel Paese; cresce dal 2014 in Svezia, Olanda, Austria, Repubblica Ceca, Polonia. Può contare da Londra sulle strategie di Steve Bannon, l’uomo che aiutò Donald Trump a vincere, e sull’appoggio della Casa Bianca.
Era stata l’intuizione di Macron a fare delle Europee 2019 la prima competizione continentale sui valori che dividono ogni Paese: apertura contro chiusura, nazione contro Unione. Eppure lungo la strada il francese, perso Renzi, per ora ha raccolto pochi veri alleati. Salvini e Orbán, in fondo, devono al loro nemico l’idea che ora li spinge.