Una sepoltura iniziò a fare di Viktor Orbán il leader massiccio e soddisfatto di sé che girava ieri per il centro di Milano. Fu la tumulazione con gli onori di Stato per Imre Nagy, l’eroe della rivolta ungherese ucciso dai sovietici nel 1956. Il giorno di quella cerimonia tardiva, era il 16 giugno 1989, il Muro di Berlino e il Patto di Varsavia si tenevano ancora sempre più precariamente in piedi. Orbán era un attivista di 26 anni arrivato da Alcsútdoboz, un villaggio miserabile cinquanta chilometri a Ovest di Budapest. Prima che il servizio militare gli ispirasse l’odio per il comunismo che l’aveva spinto in politica, il calcio era stato il suo solo interesse.
Orbán quel giorno era il giovane scelto per parlare, sette minuti al massimo. Arrivava il suo momento, sapeva che lo avrebbero seguito in diretta milioni di ungheresi. Poteva dire ciò che voleva, gli spiegarono, ma doveva evitare provocazioni come reclamare il ritiro delle forze sovietiche. Non appena ebbe il microfono chiese esattamente quello e trasformò i suoi sette minuti nell’evento della giornata. Era nato un nuovo leader, giovane, coraggioso e per il momento liberale. Fondò un partito, Fidesz, che prevedeva il divieto d’iscrizione per chiunque avesse più di 35 anni.
Tre decenni dopo quel partito controlla due terzi del parlamento di Budapest, è al potere ininterrottamente da quasi nove anni, ha drammaticamente ridotto la libertà di stampa, ha infiltrato le corti e i tribunali, ha tassato in modo insostenibile le organizzazioni non governative che raccolgono fondi all’estero e minaccia di chiudere la Central European University, un’eccellenza culturale indipendente del Paese. Il suo leader e primo ministro senza sosta dal 2010 è sempre lui, l’uomo dal talento innato nell’annusare l’umore della folla e cogliere l’attimo per spingere i limiti sempre un po’ più in là. Orbán lo ha mostrato ancora una volta in un discorso del 26 luglio 2014, quando teorizzò la svolta: «La nazione ungherese non è una semplice somma di individui, ma una comunità che ha bisogno di essere organizzata, rafforzata e sviluppata — disse —. In questo senso il nuovo Stato che stiamo costruendo è uno Stato illiberale». Come ai suoi alleati italiani di oggi, sostiene il politologo Ivan Krastev dell’Istituto di scienze umane di Vienna, a lui non interessa prevalere in una discussione colta fra persone di buone maniere; vuole vincere nelle urne.
Nei mesi in cui arrivò al potere, Budapest era tappezzata di cartelli «vendesi» in tutte le strade. Il virus della Grande recessione aveva preso nel Paese una forma particolare: un milione di ungheresi si erano indebitati in franchi svizzeri per inseguire il sogno di uno stile di vita occidentale, ma il crollo del fiorino li aveva travolti. Per la campagna elettorale di Orbán del 2010 quell’episodio fu l’equivalente, infinitamente più in grande, dello scandalo dei bond subordinati di Banca Etruria cavalcato dai 5 Stelle nel 2015. «La liberaldemocrazia è stata incapace di proteggere i beni pubblici essenziali per sostenere una nazione», proclamò Orbán.
Fu la sua rivincita personale. L’umiliazione negli anni del passaggio al capitalismo inflitta su di lui dagli intellettuali e dai liberali di Budapest dev’essere stato parte di ciò che lo motiva. Una sera a un ricevimento un noto politico liberaldemocratico, Miklos Haraszti, gli si avvicinò e con un gesto insolente gli aggiustò la cravatta. L’arrivista di campagna non sapeva mimetizzarsi in società. I presenti — racconta Krastev — ricordano come il futuro premier arrossì, confuso e furioso. Oggi l’opposizione liberale, colta ed europeista — anche qui, come in Italia — è ridotta allo stato di sopravvivenza: afona, senza idee, troppo debole e divisa per correggere qualunque dettaglio di Orbán e del suo sistema.
Eppure ce ne sarebbe molti da rivedere. Gli amici d’infanzia del villaggio di Alcsútdoboz, primo fra tutti un ex idraulico di nome Lorinc Meszaros, sono diventati gli uomini più ricchi del Paese a forza di vincere appalti pubblici finanziati dalla Ue con fondi (anche) italiani. Di recente l’ufficio antifrode di Bruxelles ha notato molte irregolarità in contratti da 40 milioni di euro legati a un giovane chiamato István Tiborcz. Fino ad allora, era noto soprattutto per aver sposato la figlia di Orbán.