Negli stessi minuti in cui il nostro ministro dell’Economia metteva piede in Cina per la sua missione ufficiale, l’Organizzazione dei paesi industrializzati (l’Ocse) indicava l’Italia come l’unico Paese tra quelli del G7 che invece di accelerare subisce una frenata del proprio Pil: dallo 0,3 allo 0,2% tra il primo e il secondo trimestre 2018, contro un leggero aumento dallo 0,5 allo 0,6% dell’area Ocse.
Segno che la guerra dei dazi è solo uno dei freni alla crescita. Oltre agli effetti del neoprotezionismo, c’è un caso tutto italiano che, secondo i principali istituti di ricerca, affonda le radici nell’incertezza della politica economica. Incertezza nata durante una campagna elettorale carica di promesse, e cresciuta ora intorno alla prossima manovra autunnale, tanto da spingere Giovanni Tria a dichiarare che lo scopo della visita «non è cercare compratori per i titoli del debito pubblico». «Non abbiamo questo problema, il debito è sostenibile e lo spread tornerà a scendere. Gli investitori cinesi valuteranno se acquistare i titoli italiani esattamente come faranno gli investitori di altri Paesi o quelli italiani. Fino ad oggi – ha detto Tria – chi lo ha fatto non si è pentito e sono fiducioso che il giudizio positivo sulla stabilità finanziaria dell’Italia si rafforzerà nel momento in cui si concretizzerà la politica di bilancio del governo».
Non sembra plausibile, tuttavia, che il tema di un possibile acquisto di nostri titoli di Stato (soprattutto se lo spread dovesse ulteriormente salire, e in vista della fine degli aiuti targati Bce), non rientri nei prossimi colloqui del ministro dell’Economia a Pechino e a Shanghai. Non si spiegherebbe altrimenti la presenza nella delegazione italiana, oltre all’ad di Cassa depositi e prestiti Fabrizio Palermo, del vicedirettore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, della responsabile dei rapporti finanziari internazionali del Tesoro, Gelsomina Vigliotti, e dei vertici del dipartimento per l’emissione e il finanziamento del debito pubblico. Né si capirebbe il senso dell’incontro previsto con il governatore della Banca centrale cinese Yi Gang.
Questo, ovviamente, non significa che si profili, come sostiene qualcuno, un vero e proprio scambio tra l’acquisto di Btp da parte di Pechino e un impegno italiano nelle prossime iniziative infrastrutturali cinesi, a cominciare dal coinvolgimento nel grande piano di investimenti “Belt and Road Initiative” da costruire lungo due rotte tra Cina ed Europa, una terrestre e l’altra marittima. Di questo piano si parlerà nei colloqui di questi giorni, il cui scopo è quello, come ha detto ieri il ministro, di «rafforzare ulteriormente i rapporti bilaterali, il dialogo e la cooperazione tra Roma e Pechino», e di contrastare ogni spinta protezionista. Il rischio, tuttavia, è che l’Italia si faccia coinvolgere in progetti che alla fine potrebbero relegarla in secondo piano. La Sace, la società del gruppo Cassa depositi e prestiti che assicura il credito all’esportazione, sostiene che il corridoio terrestre ferroviario potrebbe in alcuni casi penalizzare il nostro Paese perché ad esempio i prodotti delle aziende automobilistiche tedesche, che ora transitano attraverso l’Italia prima di essere imbarcati verso i mercati orientali, avrebbero una via alternativa che ci escluderebbe. Anche la rotta marittima, dopo il massiccio investimento cinese nel porto del Pireo – spiega la Sace – potrebbe lasciar fuori i porti italiani puntando su quello greco come hub per accedere al mercato europeo. Un primo tentativo del settore portuale italiano di inserirsi nel progetto della Nuova Via della Seta, verrà dalla North Adriatic Port Association, con la candidatura dei porti di Venezia, Ravenna e Trieste, oltre a quelli di Capodistria e Rijeka. Intanto Cdp e Intesa Sanpaolo hanno sottoscritto un protocollo d’intesa per rafforzare il sostegno alla internazionalizzazione delle imprese italiane in Cina.