Le turbolenze finanziarie dell’estate sui mercati, specie quelli europei che nell’Italia trovano spesso un gorgo, possono congelare gli ardori dei cosiddetti fondi attivisti, reduci da una prima metà di 2018 scintillante per volumi e campagne intraprese. Le baruffe commerciali lanciate dagli Usa, la crisi della lira turca traslata sulle economie emergenti più fragili, lo stallo politico che regge l’Europa alla vigilia di altri rinnovi elettorali e con un governo tutto da mettere alla prova in Italia, sono fattori che negli ultimi due mesi si sono alimentati con improvvisa violenza ed effetti: prima hanno mandato in rosso i listini azionari occidentali, poi hanno ridestato la sensibilità al rischio sovrano da anni imbelle, ora fermano la mano degli investitori -specie i più intraprendenti- su dossier potenziali o allo studio.
E che potrebbero restare nella penna, fintanto che le prove dell’autunno saranno superate. «Molti fondi attivisti sono di fatto investitori long only. non è molto diffusa la pratica di coprire i rischi dell’investimento – spiega un gestore che chiede di restare anonimo -. Per questo risentono del ciclo, e se il mercato gira in negativo e sale l’incertezza la loro attività può frenare». Declinare questi concetti in italiano significa soprattutto attendere di capire se la legge di spesa dell’esecutivo Conte rimanderà alle stelle il differenziale del Btp sul Bund tedesco, e se le banche, volano o zavorra del paese secondo i momenti, riusciranno a navigare tra i marosi – compreso il possibile declassamento del rating domestico da fine agosto – senza consumare troppo capitale: altrimenti la vigilanza creditizia alzerebbe uno scudo per preservare la stabilità finanziaria, a scapito di ogni possibile pressing di chi investe.
L’evoluzione degli assetti proprietari su Carige, Creval, Popolare di Sondrio e di Bari, e sullo sfondo il rinnovo del patto Mediobanca e le ricadute su Generali, saranno altrettanti test. Nell’industria, meno volatile e vincolata, restano comunque i soliti dubbi perla scarsa crescita del Pil, e i nuovi timori di rischio politico. L’allarme di Atlantia Quanto accade ad Atlantia è letto dai gestori – non solo quelli “attivisti” – come un allarme per l’intero sistema e la sua capacità di attirare investimenti in una comice di certezza del diritto. Vale per il gruppo dei Benetton – che oltre al crollo borsistico rischia una pesante multa e il declassamento del merito di credito delle principali agenzie – come per gli altri concessionari rivali, oltre che per gli altri business regolati come le reti di Terna e Snam. Fa caso a parte Telecom, dove il ribaltone tra l’attivista Elliott e gli ex padroni di Vivendi è appena iniziato, e la replica in scala Retelit, dove due fondi opportunistici si contendono il controllo. Gli addetti ai lavori consigliano di tenere d’occhio poi le aziende dove lo Stato ha un ruolo come Alitalia, Saipem, Eni, Leonardo, che per ragioni di discontinuità o criticità passate legate a contenziosi o ad allarmi sugli utili si sono già attirate passati strali di investitori critici. Allargando l’orizzonte, la cornice di medio termine era e resta favorevole: l’attività sui mercati è ancora imbevuta nella liquidità delle banche centrali, che non solo sostiene i prezzi mobiliari, ma muove gli operatori generalisti ad acquisti e vendite monodirezionali da anni. In questc scenario, in riduzione ma con molta gradualità – specie nell’Europa dove Mario Draghi continua a fare il “pompiere” – il ruolo dei fondi attivisti e la loro attitudine a proporre singoli spunti di investimento con prospettive di alto margine è una merce di valore. Lo attesta la loro maggior crescita, nella serie storica sui dati dei flussi di FactSet, Pei e Simfund: tra il 2007 e il giugno 2018 l’appiattimento crescente degli investitori ha portato alla diffusione di strumenti a gestione passiva – su tutti gli Etf, i più economici – che hanno attirato nel decennio 889 miliardi di dollari di nuovi investimenti. Altrettanto “passivi”, nel senso che replicano comunque panieri azionari, i fondi comuni indicizzati hanno avuto 532 miliardi di nuove masse.
Molto più deciso, a latere, l’incremento delle masse affidate ai fondi azionari attivamente gestiti, cresciuti nella decade di 1.385 miliardi. A ulteriore conferma, i dati pubblici aggregati da Lazard sui primi due trimestri del 2018 mostrano per i fondi attivisti un’attività da record. Tra gennaio e giugno ci sono state 145 campagne contro 136 società: ben oltre le medie di marcia dell’anno precedente, chiuso con 193 assalti a 169 società (e già in crescita sull’anno prima, mentre il 2015 segnò un primato che a dicembre sarà forse battuto). Anche il capitale mobilitato nel semestre, di poco oltre i 40 miliardi di dollari, è da primato: malgrado sia già visibile il rallentamento congiunturale tra aprile e giugno, quando ci si è fermati a 15,3 miliardi (dai 25 miliardi del primo trimestre). Le nuove iniziative si concentrano soprattutto nel comparto tecnologico, con un valore dei pacchetti azionari al momento dell’annuncio pari a 10,8 miliardi, contro 7,2 miliardi nell’industria, 5,5 miliardi nella finanza e 5,3 miliardi nella distribuzione. Mattatore dell’ultima tornata è proprio il fondo statunitense Elliott, che ha avviato 17 campagne nel semestre investendo 5,3 miliardi, metà di Tci (che li impiega quasi tutti per il 4% di 21st Century Fox però), seguono Value Act con sei campagne e 2,4 miliardi e Icahn con 1,2 miliardi su tre obiettivi. Anche in termini di rappresentanza nei cda oggetto, c’è fermento: gli attivisti hanno raccolto più poltrone nel primo semestre 2018 (in tutto 119) di quante ne presero nell’anno precedente, con un +75% che promette di battere il primato 2016. Quasi metà di quei posti sono andati a membri scelti dai fondi Elliott, Starboard, Icahn.
Sono loro a orchestrare le grandi operazioni: dal ribaltone in Telecom Italia di marzo al bis da un miliardo del fondo dei Singer per contestare a Hyundai governance e piano di ristrutturazione (poi abbandonato); dal pressing – sempre di Elliott ma in coppia con Sachem Head – sulla britannica Whitbread per scorporare la catena Costa Coffee al blitz di Jana in Pinnacle per forzarne l’acquisizione da parte di Conagra Brands; dalle critiche di Icahn contro la vendita di un attività della finanziaria Usa Am Trust all’incursione di giugno, in duo tra Elliott e Bluescape, per entrare di peso nel cda dell’americana Sempra Energy e “liberarla dallo sconto conglomerata”. Prima di Ferragosto, per le statistiche del secondo semestre, Elliott ha fatto capolino anche in Nielsen, storico marchio di ricerche di mercato che vive una fase difficile: il fondo newyorchese ha rastrellato 1’8% pagando almeno 640 milioni, per chiedere al cda Nielsen di prendere sul serio le offerte dei fondi chiusi (già alla porta).
L’analisi qualitativa del semestre conferma le tendenze precedenti: circa un terzo delle iniziative dei soci contestatori ha a che fare con modifiche degli organi sociali, un altro terzo riguarda fusioni e acquisizioni in corso o potenziali (compresa la sottocategoria degli scorpori), un quarto con strategie di business e il 23% con l’utilizzo del capitale. Come e con quanta vitalità si muovano i gestori in cerca di «buone aziende con un potenziale per diventare grandi aziende» lo spiega un recente studio di Alvarez e Marsal, aggiornato a maggio su 1.854 aziende europee. Il modello di analisi della società di consulenza analizza lo scarto di performance tra la migliore e la peggiore divisione all’interno di uno stesso gruppo, e come questo differenziale evolve nei trimestri. Come spiega Alberto Franzone, co-responsabile di AeM in Italia, «il miele per investitori di questo tipo sono proprio le conglomerate con attività diversificate e senza una visione industriale chiara». Su questa analisi preparatoria i consulenti di AeM basano le predizioni per future campagne, e le contromisure che le aziende sotto potenziale scacco debbano attivare per prevenirle (che è sempre giudicata la cura migliore, in materia). Trai settori, i consulenti statunitensi segnalano distribuzione, industria e comunicazioni, mentre energia e materie prime sono al momento «meno attraenti per il recupero dei prezzi delle risorse». Nella distribuzione, che risente della minaccia globale di Amazon, AeM ha individuato, senza renderle note, 46 prede, di cui metà «ad alto rischio», ovvero nei prossimi 6-12 mesi; nell’industria 45 con 20 ad alto rischio; seguono 21 aziende di intemet e tic (metà più a rischio), 11 minerarie e così via. Le geografie più attraenti, sempre secondo la ricerca, sono «Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, a scapito di Svizzera e Scandinavia». La City è sempre regina, con 60 quotate nel mirino dei fondi, di cui 28 più a breve; Germania e Francia si contendono il podio con 18 e 17 aziende nel fuoco dei fondi (circa metà entro 6-12 mesi). Seguono Benelux, Svizzera e Scandinavia, poi l’Italia con 12 prede, quattro a breve e otto entro 12-18 mesi. Nella precedente rilevazione le prede tricolori erano 11. «Oggi la finanziarizzazione dell’economia fa sì che ogni imprenditore sia sotto esame dall’esterno, e debba costantemente valutare se sia meglio per la sua azienda quotarsi, fondersi o vendere ad altri gestori – continua Franzone -. Questo rende gli assetti proprietari molto flessibili. In questo quadro si inserisce l’attività dei fondi attivisti. Può essere un male, se si produce macelleria sociale o distruzioni di valore a fini di speculativi di breve termine. Ma può essere anche un bene, se questo stimolo fa evolvere le professionalità di imprenditori, amministratori e controllori d’impresa: specie in un capitalismo che per anni è stato piuttosto ingessato come l’ italiano»