A chi in questi giorni medita sulle prossime strategie aziendali, può essere utile una lettura incrociata di fonti autorevoli. Dagli ultimi dati cumulativi di Mediobanca sulle società italiane (multinazionali, grandi, medie che innovano e conquistano mercati lontani), emerge che quelle industriali su quanto venduto nel 2017 di loro ci hanno messo il 19,5 per cento (valore aggiunto). Il restante 80,5 per cento (materie prime, materiali, servizi) l’hanno comprato da terzi. Il valore aggiunto percentuale è una misura dell’«industrialità» dell’impresa, infatti scende ai minimi se l’azienda è commerciale, cioè se si limita a rivendere quello che compra. Calcolato per l’aggregato delle società italiane, è una misura dell’industrializzazione del paese.
Nel 2017 era pari appunto al 19,5 per cento. Per un confronto, in Europa la più industrializzata è la Svizzera con un 43 per cento, segue la Germania con il 35 per cento. Trent’anni fa, l’industria italiana di suo ci metteva il 30 per cento. Poi non ha più investito, non ha innovato, ha lasciato invecchiare le fabbriche e le ha utilizzate poco, si è impoverita fino a che nel 2012 il grado di industrializzazione era letteralmente dimezzato, al 15 per cento (vedi parte alta del grafico). Nel 2004, subito prima dell’arrivo di Sergio Marchionne, il valore aggiunto del gruppo Fiat era pari all’8 per cento del fatturato, cioè l’auto Fiat non era Fiat, al 92 per cento era dei fornitori.Questo prolungato processo di deindustrializzazione, è stato il prezzo pagato dal Paese per esser giunto impreparato e per non aver saputo o voluto reagire allo smantellamento ormai ineludibile degli strumenti d’intervento pubblico che sessant’anni prima erano stati allestiti con abilità per contrastare la grande crisi del ’29, come ha ricordato martedì scorso Dario Di Vico sul Corriere della Sera. Mi riferisco all’industria di Stato poi abolita nel 1992, al superamento del protezionismo con il mercato unico europeo (1993), alla fine delle agevolazioni del Cipi (1993) e del credito industriale (1995) e, solo dopo, all’impossibilità di fare ulteriori svalutazioni della lira (fine 1996) e per questa via recuperare una temporanea competitività. La concertazione si rivelò un’alternativa fallace (1998).
Nei venti anni trascorsi dal 1998, i due più noti (pur criticabili) indicatori di competitività elaborati da centri internazionali (Wef e Imd) hanno collocato l’Italia sempre tra il 35° e il 55° posto nella graduatoria mondiale. Ogni governo all’inizio ha migliorato un po’ la posizione ma poi, fallendo il suo programma, la competitività è peggiorata e il governo è caduto (vedi parte bassa del grafico). Sembrerebbe fare eccezione il governo Gentiloni il quale, pur avendo fatto poco, a maggio scorso ha avuto dall’Imd il riconoscimento postumo di una posizione dell’Italia (43ª) migliore dell’anno prima (44ª). Nessun governo in Italia è stato capace di elaborare un Progetto Competitività, né tanto meno di «ingegnerizzarlo» e «cantierarlo». Altro che Tav e Tap, la competitività sarebbe l’opera vera, la gara da vincere nel mondo.
Dal 2013 è cominciata per l’industria una buona risalita del valore aggiunto, dal 15 al 19,7 per cento nel 2016. Le analisi dicono che ciò è derivato da un forte miglioramento dell’utilizzo della capacità produttiva degli impianti, passato secondo l’Istat dal 71 per cento del 2012 al 76 per cento del 2016, a sua volta tirato da un revamping della domanda interna. Quando aumenta l’utilizzo, i costi fissi sono fissi e si amplia la forbice tra ricavi e consumi (appunto il valore aggiunto). Una volta conseguito questo livello di sfruttamento delle fabbriche vecchie, gli imprenditori nel 2016 sono tornati a investire, incentivati da misure fiscali (non costose) come il super e l’iper-ammortamento.
Questo percorso è stato misurato sempre in anticipo dalla Banca d’Italia nei Bollettini economici. Il 19,5 per cento del 2017 (richiamato qui all’inizio) risulta perciò un po’ deludente rispetto al 19,7 del 2016, anche perché l’Istat dice che nel 2017 l’utilizzo degli impianti è ancora cresciuto (78 per cento nelle medie imprese e 79 nelle grandi). D’altra parte, gli investimenti intrapresi a fine 2016 e realizzati nel 2017 non hanno potuto mica dare effetti simultanei, quindi è ragionevole attendersi benefici quando i nuovi investimenti saranno in produzione nei prossimi mesi. In prospettiva, il problema è un altro. La Banca d’Italia un mese fa ha avvertito che nei primi tre mesi del 2018 le imprese manifatturiere hanno ridotto gli investimenti materiali e immateriali per l’incertezza sul rinnovo degli incentivi fiscali, poi gli investimenti sono ripartiti ma in un quadro economico deteriorato, infine le attese sull’evoluzione della domanda interna ed estera sono meno ottimistiche. Insomma, se il governo «legastellato» facesse peggio di Gentiloni, sarebbe la fine per l’industria.