Per rassicurare i mercati non bisogna rimandare l’attuazione del programma di governo, perché i rinvii generano incertezza. Occorre invece partire cercando di disegnare un percorso progressivo, deciso ma senza strappi, che si sviluppa senza superare le colonne d’Ercole della discesa del debito pubblico e del «non peggioramento» del deficit strutturale: cioè i due obiettivi chiave già indicati al Parlamento che resteranno la bussola del “Governo del cambiamento”. A tracciare questa strada, diversa ma che in qualche modo richiama anche il “sentiero stretto” del predecessore Pier Carlo Padoan, è un economista di 69 anni, perfettamente consapevole di essere seduto dal primo giugno 2018 sulla poltrona di governo che più scotta. Un uomo di buon senso dai modi cortesi che mostra una grande serenità e che, convinto delle sue idee, prova a mescolare ambizione della politica e concretezza delle cifre.
Piuttosto tranquilli, in una Roma accaldata e deserta, sono anche i graficiche, dal computer sulla scrivania del ministro dell’Economia Giovanni Tria registrano uno spread anche ieri in leggera discesa. Ma Tria sa bene che la prova di agosto è delicata, e nelle due ore abbondanti riservate a questa intervista punta a tracciare con precisione non solo la filosofia della legge di bilancio in preparazione, ma anche il contenuto dei suoi capitoli chiave. E un metodo che parte dai tavoli tecnici, passa dall’elaborazione di una mole di grafici, tabelle e simulazioni e punta ad ancorare le scelte politiche alle cifre costruendo una linea comune in una coalizione con voci e sensibilità a volte molto diverse, come dimostra lo scontro tra Movimento 5 Stelle e Lega sulle grandi opere. Senza rinunciare a ipotesi di interventi profondi come la riduzione delle aliquote dell’Irpef e del loro livello, finanziata da un maxi-taglio agli sconti fiscali (bonus Renzi compreso) e della spesa pubblica con l’eccezione di sanità, scuola e ricerca. Ma tutto questo, almeno nella ricostruzione di Tria, senza scontri fra “rigoristi” dei numeri e tifosi del contratto di governo, e senza assedi al forte di Via XX Settembre.
Ministro, venerdì c’è stato il primo vertice politico sulla manovra, e oggi è in programma un altro incontro. Lei ha voluto fortemente questi appuntamenti. Per quale ragione, se non per frenare ambizioni e fughe pericolose agli occhi di chi – come i mercati- ha in tasca una larga fetta dei quasi 2.330 miliardi del nostro debito pubblico?
Questi incontri nascono per condividere analisi e obiettivi nella costruzione del quadro programmatico di finanza pubblica. Ma basta la cronaca del primo vertice per smentire le ricostruzioni che raccontano di tensioni sui vincoli di finanza pubblica. Per due terzi del tempo si è parlato di investimenti pubblici, delle riforme che servono per la loro ripresa e dei possibili impatti sulla crescita, e per l’altro terzo si è ragionato sulle ipotesi del quadro programmatico da presentare a settembre. Alla fine sono stato io a rassicurare i colleghi sul fatto che l’avvio delle misure principali del contratto di governo è compatibile con i vincoli di finanza pubblica, e non viceversa. E oggi l’incontro sarà allargato ad altri ministri per avere una condivisione più ampia.
Ma l’avvio è compatibile con i vincoli se le misure sono in formato ridotto per non dire mini. O no?
Non è così, perché avvio non deve fare rima con rinvio. A spaventare mercati e investitori non è il programma di governo, ma l’incertezza sulle prospettive, e traccheggiare aumenta le incognite, certo non le riduce. Su riforma fiscale e reddito di cittadinanza bisogna partire davvero, e tracciare un calendario che indichi in modo nitido le misure da attuare nel 2019 e i progressi da compiere negli anni successivi.
Sulle pensioni, invece, si può aspettare? Nel comunicato di venerdì dopo il vertice, previdenza e legge Fornero, la cui ridiscussione preoccupa anche il Fondo Monetario, non erano citate, a differenza di Flat Tax e reddito di cittadinanza.
No, la mancata citazione non significa l’abbandono del dossier. Stiamo studiando anche gli interventi previdenziali, con il vincolo che non incidano in modo troppo pesante sulla curva della spesa a medio e lungo termine.
L’idea di “quota 41” però, un impatto ce l’avrebbe, e nemmeno leggero.
Dipende dalle condizioni. Stiamo studiando, e non c’è ancora un quadro definito.
A rendere delicato questo nodo sono i riflessi sul debito, e lo spread dimostra che i nostri titoli sono tornati sotto speciale osservazione. Come se ne esce?
Lo spread è influenzato da vari fattori. Il primo è il rallentamento dell’economia. Una maggiore incertezza sul futuro allarga i differenziali perché spinge gli investitori su titoli più sicuri. Non mi risulta però che ora ci sia una “fuga” dai titoli italiani. Ci sono piuttosto operazioni su futures e cds e ad agosto, quando i mercati sono più sottili, bastano anche piccoli movimenti per dare fluttuazioni di prezzo.
Sulle agenzie internazionali, molto lette dagli investitori, sono state spesso citate posizioni di esponenti euroscettici come Alberto Bagnai, presidente della commissione Finanze del Senato, o Claudio Borghi, che guida la commissione Bilancio della Camera, oltre alle famose evocazioni del «piano B» da parte del ministro agli Affari europei Paolo Savona. Non pensa che anche queste dichiarazioni rischino di far lievitare i timori sull’Italia?
Ma no, bisogna separare posizioni euroscettiche sul piano accademico, come quelle di Bagnai, con il fatto che la linea ufficiale del governo non mette in alcun modo in discussione la nostra permanenza nell’euro. E da quando il governo si è costituito non ho più visto dichiarazioni in quella direzione. Poi la fama che circonda alcune persone è spesso distante dalla realtà: il ministro Savona, per esempio, sul rispetto dei vincoli di finanza pubblica è ancora più rigido di me. Il problema non è questo: per aumentare la fiducia dei mercati bisogna dimostrare di saper crescere.
Lei ha parlato più volte di «stimolo endogeno» dagli investimenti pubblici, ma negli ultimi anni si è provato più volte ad attivarlo senza risultati. Come si passa dai programmi ai fatti e ai risultati?
Stiamo studiando un grande piano per mobilitare tutte le risorse esistenti già nel bilancio pubblico, ma sono incagliate per una delle tante cause possibili. Spesso vengo a sapere per caso, nel corso di diversi incontri, che ci sono investimenti bloccati per esempio in grandi enti previdenziali perché mancano i progetti, non le risorse. Oppure che al ministero della Giustizia era bloccato il piano carceri, realizzato con Cassa depositi e prestiti, che abbiamo ora riattivato. Serve quindi prima di tutto un monitoraggio centrale e puntuale per capire, di ogni programma, a che punto è e quale causa lo blocca. Ma questo ovviamente non basta. Negli ultimi anni nelle amministrazioni è scomparsa per varie ragioni la capacità di progettazione, che è la precondizione essenziale per attivare gli investimenti. Soprattutto gli enti locali non hanno più le competenze, e occorre ricostruire una struttura che rappresenti una sorta di versione aggiornata del Genio Civile, e sia in grado di fornire progetti definitivi agli enti che devono costruire o ristrutturare case, scuole oppure ospedali. Progetti evanescenti alimentano anche la paura della firma, perché avallare spese in base a una progettazione zoppicante è rischioso. Ma su questo piano è essenziale anche una forte opera di semplificazione delle norme: a settembre faremo un primo intervento sul Codice appalti, in vista di una successiva revisione generale.
Ma una strategia che punta sul rilancio degli investimenti pubblici non è in contraddizione con l’opposizione a tutto campo del Movimento 5 Stelle nei confronti delle grandi opere che mette a rischio tutti i principali progetti, dalla Tav alla Tap al Terzo valico?
Capisco i timori del mondo delle imprese, soprattutto nella fase delicata in cui si costruisce l’identità politica di un governo completamente nuovo che si gioca anche sul piano simbolico. Sulla Tav, per esempio, penso che ci sia uno scontro intorno a fatti simbolici, che si risolveranno, senza dimenticare che questa come altre grandi opere fanno parte di piani di infrastrutturazione europei che non vanno messi in discussione. Ma per far ripartire l’economia bisogna guardare alla massa di opere e investimenti pubblici diffusi sul territorio. Sulle opere più grandi bisogna poi costruire un ruolo più attivo delle grandi aziende a partecipazione pubblica come Enel, Eni e Ferrovie e di Cassa depositi e prestiti.
Tante incognite si concentrano però anche sugli investimenti privati, come mostra la dura reazione corale degli imprenditori contro i nuovi vincoli introdotti dal decreto lavoro. Non rischiano di trasformarsi in un autogol?
Mi rendo conto delle ragioni di questi timori, ma anche su questo aspetto occorre un ragionamento più freddo. Prima di tutto, sono sempre convinto del fatto che si debba aspettare di vedere gli effetti a regime, all’interno di un quadro più ampio di interventi che in manovra potranno vedere nuovi incentivi per il lavoro a tempo indeterminato. Non va ignorato del resto il fatto che in questo periodo c’è stato un abuso di contratti a termine, e anche dal punto di vista macroeconomico un aumento così forte di lavoro a tempo determinato è un problema perché non permette un investimento nel capitale umano e quindi un aumento della produttività, che rimane il grande malato italiano. Il problema esiste, e se la risposta è adeguata lo vedremo.
Resta il fatto che il rilancio degli investimenti, a patto che riesca, richiede tempi lunghi. Oppure ci puntate per allargare i margini di bilancio già dal prossimo anno?
Certo non è possibile ipotizzare a settembre un aumento della crescita rispetto al tendenziale sulla base del fatto che puntiamo sugli investimenti pubblici. Ne siamo perfettamente consapevoli, e proprio per questa ragione è fondamentale il tema delle coperture, e una strategia che attui il programma di governo dentro ai vincoli di finanza pubblica. Su questo presupposto si basano le ipotesi di quadro programmatico che stiamo discutendo con gli altri ministri.
Le presenti anche a noi.
Le valutazioni attuali portano a stimare una crescita dell’1,2% quest’anno, contro l’1,5% scritto nel Def, e intorno all’1-1,1% l’anno prossimo, con un rallentamento che si sta verificando in tutti i grandi Paesi Ue. Già questo rallentamento porterebbe il deficit tendenziale del 2019 all’1,2%, e a settembre si capirà il livello dei rendimenti su cui basare le previsioni definitive. A questo si aggiungono i 12,4 miliardi necessari a fermare le clausole di salvaguardia sull’Iva. Stiamo però dialogando con la commissione Ue per evitare una correzione che sarebbe troppo pro-ciclica, cioè che favorirebbe il rallentamento dell’economia.
Numeri come questi sono compatibili con il mantenimento del percorso di riduzione del debito?
Senza dubbio. Certo, ci sarebbe un rallentamento rispetto ai tendenziali previsti mesi fa, ma quel che conta è il percorso di riduzione, che non viene messo in discussione. Poi ci sono programmi possibili di ulteriori privatizzazioni, che in questi anni si sono fermate anche per problemi di capitalizzazione, oggi superati.
Gli spazi però rimangono stretti. Questo non potrebbe mettere a rischio il blocco degli aumenti Iva dall’anno prossimo?
No. Tutte le simulazioni su cui abbiamo lavorato si basano sulla mancata attivazione delle clausole di salvaguardia. Bisogna tener conto del fatto che la decisione di non aumentare l’Iva ha un effetto migliorativo sulla crescita, valutabile fra 1 e 2 decimali secondo i modelli. Ma sull’Iva possiamo al massimo effettuare qualche riordino per semplificare alcune aliquote: stiamo elaborando varie ipotesi, alcune producono piccoli aumenti di gettito e altre qualche riduzione, ma con volumi assolutamente marginali.
Resta in gioco una cifra in grado di assorbire praticamente tutti i margini aggiuntivi che l’Italia chiede alla commissione Europea. Sempre che ci venga effettivamente concessa.Non c’è il rischio che obiettivi di deficit meno “flessibili” blocchino l’avvio del programma?
Credo che sia nell’interesse sia dell’Italia sia della Commissione Ue non creare instabilità finanziaria. Nella definizione condivisa degli obiettivi si terrà conto della composizione del bilancio e della rapidità con cui metteremo in campo le azioni per aumentare il peso degli investimenti sul totale della spesa. I governi precedenti hanno utilizzato la flessibilità concessa dalla clausola investimenti senza essere riusciti ad aumentarli davvero, e questo aspetto complica il quadro.
Ma anche una volta rivisti gli obiettivi di deficit, come si fa con il resto del programma?
Costruendo interventi accompagnati da coperture solide, punto per punto.
Partiamo dal fisco. Sull’avvio della Flat Tax si sono fatte diverse ipotesi, a partire dall’aumento delle soglie di fatturato che permettono a partite Iva, professionisti e artigiani di accedere al regime forfettario del 15%. È la strada giusta?
Con «avvio» della Flat Tax, prima di tutto, va inteso un percorso progressivo di convergenza verso l’obiettivo indicato dal programma di governo. Su quest’ultimo aspetto, l’aumento delle soglie per il regime forfettario è sicuramente un passo possibile, che produce anche un rilevante effetto di semplificazione degli adempimenti a carico delle attività economiche più piccole. Ma stiamo lavorando intensamente anche sulle simulazioni degli interventi possibili per le persone fisiche, sempre nell’ottica di convergere progressivamente verso l’obiettivo finale.
Avete ipotizzato anche la riduzione da cinque a tre delle aliquote Irpef?
È una delle molte simulazioni che abbiamo effettuato in queste settimane, lavorando anche su ipotesi non solo di riduzione del numero di aliquote ma anche del loro livello. È fondamentale che ogni ipotesi venga inquadrata nel disegno complessivo, in un quadro che sia in grado di dare certezze agli investitori ma anche alle famiglie, identificando non solo le misure del primo anno ma anche i passaggi che portano all’obiettivo finale in un’ottica pluriennale.
Con quali coperture?
Le coperture devono arrivare da un riordino profondo delle tax expenditures, che finora non si è fatto perché è realizzabile solo se accompagnato da una riduzione delle aliquote generali. In un certo senso bisogna applicare una versione adattata dell’«ottimo paretiano», in cui nessuno perde e qualcuno guadagna in un’ottica pluriennale.
In discussione entra anche il bonus Renzi da 80 euro?
Non c’è dubbio, anche per ragioni di riordino tecnico. Per com’è stato costruito, il bonus da 80 euro crea complicazioni infinite, a partire dai molti contribuenti che l’anno dopo scoprono di aver perso o acquisito il diritto per cambi anche modesti di reddito. Ma proprio per la delicatezza del tema, è importante ribadire che tutto il sistema va rivisto con la garanzia che nessuno perda nel passaggio dal vecchio al nuovo. L’obiettivo è di definire la distribuzione dei benefici e di modulare di conseguenza l’intervento sulle tax expenditures.
Il lungo elenco delle «spese fiscali» riguarda anche le imprese. Pensate di agire anche su quel fronte?
Il lavoro di revisione deve essere complessivo.
Fra gli aiuti fiscali alle imprese ci sono però anche iper e super-ammortamento, che hanno bisogno di una conferma in manovra per non decadere. Sono a rischio anche quelli?
Iper e superammortamento sono stati efficaci per la ripresa degli investimenti privati, quindi andranno confermati. La scelta sugli strumenti da rivedere deve essere naturalmente basata anche sull’analisi di costi e benefici, e quindi sulla loro efficacia. Certo, non sono scritti nei tendenziali e la loro riconferma ha un costo, ma penso che questi meccanismi vadano mantenuti.
Sempre nel capitolo imprese, nell’audizione in commissione Finanze al Senato ha evocato la possibilità di interventi sull’Irap. State studiando anche questo aspetto?
L’Irap potrebbe essere anche progressivamente eliminata perché ha effetti distorsivi. In questo momento però è più importante concentrarsi sui punti del programma più significativi e simbolici, anche perché il mondo guarda a come li attuiamo e a come rispettiamo i vincoli di bilancio. Quindi per ora occorre evitare di disperdersi anche su altri fronti, seppur importanti.
Fra le misure che producono entrate torna spesso anche la «pace fiscale», su cui in campagna elettorale sono circolate stime multimiliardarie. Lei ha invece fatto riferimento ai calcoli dell’agenzia delle Entrate secondo cui, negli oltre 800 miliardi di cartelle arretrate presenti nel «magazzino» dell’agente della riscossione, la quota davvero aggredibile si riduce a 50 miliardi, e questo fa scendere drasticamente il gettito stimabile. Ieri per esempio è circolata una cifra intorno ai 3,5 miliardi di gettito per il primo anno. A che punto siamo?
La pace fiscale è certamente in campo, e deve essere collegata all’avvio della riforma dell’Irpef, ma le cifre sono al momento del tutto premature.
Ma una nuova definizione super-agevolata non rischia di tradursi in un messaggio agli evasori?
No, per due ragioni. La pace fiscale chiuderebbe l’arretrato in un momento di passaggio a un nuovo sistema, e il nuovo sistema poggia anche su un rafforzamento degli strumenti che combattono all’evasione. Da questo punto di vista l’avvio dal 1° gennaio della fatturazione elettronica anche nel settore privato rappresenta uno strumento potente, e va nella direzione dell’integrazione fra le banche dati che permette controlli sempre più puntuali ed efficaci.
L’altra bandiera del contratto di governo è il reddito di cittadinanza. Per il suo «avvio» si è ipotizzato un finanziamento da due miliardi per rilanciare i centri per l’impiego. È la strada giusta o si rischia di sprecare risorse in un sistema che non funziona?
Le elaborazioni che stiamo costruendo, nel gruppo creato dai ministeri dell’Economia e del Lavoro, sono molto più complesse, perché occorre prima di tutto definire con precisione il disegno del reddito di cittadinanza e di conseguenza gli strumenti di welfare che verrebbero a cadere perché assorbiti dal nuovo meccanismo. Anche il rilancio dei centri per l’impiego entra in questi analisi perché le strutture vanno ridisegnate a fondo in funzione dell’obiettivo. In quest’ottica, non può essere seguita nemmeno la strada delle proposte di legge presentate nella scorsa legislatura, che prevedevano un sistema amministrativo estremamente complesso che, se attivate, impiegherebbero anni per portare gli euro nelle tasche di chi ne ha bisogno. E chi ne ha bisogno non può aspettare anni. Il reddito di cittadinanza, in ogni caso, ingloberà l’attuale reddito di inclusione ma anche altri meccanismi di sostegno alle fasce deboli che sarebbero assorbiti dal meccanismo universale. E anche in questo caso parliamo di un’attuazione progressiva, sviluppata con gli spazi di finanza pubblica che man mano si rendono disponibili. Con la Commissione europea, poi, stiamo continuando a lavorare perché sia possibile finanziare i costi dei miglioramenti amministrativi, cioè la riforma dei centri per l’impiego, con le risorse del Fondo sociale europeo.
Il quadro delle coperture si chiude con il freno alla spesa corrente. Lei ha indicato in Parlamento l’idea di un congelamento in termini nominali, che rispetto ai tendenziali farebbe risparmiare 10 miliardi di euro il prossimo anno. Ma è praticabile?
È complicato ma occorre andare in quella direzione. Certamente la spesa corrente deve diminuire in percentuale del Pil perché questo consente di cambiare la composizione del bilancio. Ogni ministero avrà obiettivi specifici rilanciando il meccanismo della spending review previsto dalla legge, ma non taglieremo su sanità, scuola e ricerca.
In questi primi due mesi di governo, sulla sua trafficata scrivania i dossier sulla manovra si sono incrociati con quelli delle nomine, e lo stallo sulla Rai impedisce di chiudere questo capitolo. Marcello Foa, dopo la bocciatura della sua nomina a presidente in commissione di vigilanza, ha detto di aspettare «segnali» dall’azionista, e l’azionista è il Tesoro. Che «segnali» pensa di mandare?
Bisogna stare attenti: il Tesoro, per legge, ha indicato due nomi, indicandone uno come amministratore delegato e senza dare indicazioni sull’altro, cioè su Foa. La designazione a presidente spetta al consiglio di amministrazione, che è nominato in maggioranza dal Parlamento, e deve essere ratificata in commissione di Vigilanza, anch’essa un organo parlamentare. In questa fase, dunque, una presa di posizione del Tesoro sarebbe impropria.
Altre nomine attese sono quelle dei vertici delle agenzie fiscali. Si prevedono novità o ci sarà qualche riconferma?
Lo saprete oggi dopo il Consiglio dei ministri. Non do a mezzo stampa informazioni che riguardano singole persone.
Tra le società controllate dal Tesoro c’è anche Monte dei Paschi. Conferma la fiducia nei vertici attuali e la strategia di un ritorno al mercato entro il 2021 oppure si può ipotizzare di mantenerla più a lungo sotto il controllo statale, come sostenuto da alcuni esponenti di maggioranza?
Il ritorno al mercato è un obiettivo concordato con la Commissione europea e non è in discussione. Per il resto non commento questioni che riguardano società quotate, perché non è corretto per un esponente di governo. In passato è stato fatto, non da queste stanze, e non ha portato molta fortuna.
Prudenza comprensibile, ma non deve essere facile tenere la barra dei conti in un quadro politico spesso agitato da prese di posizione più o meno estreme su ruolo dello Stato o «decrescita felice»…
Guardi, penso che in movimenti del tutto nuovi, soprattutto nella fase iniziale la non ci si debba fermare alle etichette: dietro a quella di «decrescita felice» ci deve invece essere una riflessione su temi serissimi come la sostenibilità dello sviluppo, e della mole di investimenti che sono necessari per esempio per la trasformazione in senso ambientale dell’attività produttiva. Io comunque sono per la crescita felice, e questa manovra avrà il compito di favorirla.