La Lega, pur ottenendo ottimi risultati anche altrove, ha fatto il pieno di voti al nord. Essenzialmente per due motivi: il proposto e promesso pugno di ferro contro l’immigrazione indiscriminata dei barconi e una politica di sviluppo infrastrutturale oltre che a favore delle imprese e dell’occupazione con tanto di flat tax. Il Movimento Cinque stelle, pur ottenendo buoni risultati anche altrove, ha fatto il pieno di voti al sud. Essenzialmente per due motivi: il proposto e promesso reddito di cittadinanza slegato dalle tradizionali dinamiche del lavoro e la decrescita felice (?) con tanto di messa al bando di Tav, Tap e grandi opere infrastrutturali in sintonia con i vari comitati del no a prescindere sparsi per la penisola.
Messa giù così, riesce difficile capire come questi due partiti, capaci di intercettare il gradimento della maggioranza degli italiani, siano riusciti a firmare quel contratto su cui poggia le fondamenta il governo formalmente guidato da Giuseppe Conte ma in realtà saldamente nelle mani del duo Di Maio-Salvini. Sembrano due programmi antitetici, così come del resto erano stati presentati agli elettori: «Non faremo mai un governo con i grillini», assicurava Salvini certo della vittoria del centrodestra che ora invece vede l’indebolita Forza Italia all’opposizione. «Mai e poi mai con la Lega», concordava Di Maio che invece, pur di vedere finalmente tradotto il consenso in governo, ha alla fine accettato un compromesso con l’ex nemico.
Eppure le due facce del populismo italico, quella di destra leghista e quella di sinistra dei 5 stelle, alla fine hanno trovato una sintesi nelle dosi massicce di anti-europeismo presenti in entrambi i campi e nelle politiche anti-casta, anti-establishment, come i tagli alle pensioni d’oro o alla risoluzione del contratto del cosiddetto aereo di Renzi, che poco incidono sul bilancio pubblico ma che aiutano a fornire una sensazione di equità ai cittadini che si sentivano tartassati dalla legge Fornero.
Ora però viene il difficile. C’è l’impalcatura della politica economica dei prossimi anni da mettere in piedi e le contraddizioni rischiano davvero di diventare esplosive. Salvini, per esempio, pensa che il deficit al 3 per cento non sia la Bibbia, a proposito di anti-europeismo e di investimenti pubblici (in grandi opere?) da rilanciare, mentre il collega alle Infrastrutture Toninelli avverte che sulla Tav circolano stime farlocche sui flussi e che può essere conveniente bloccarla. Più che decrescita felice, qui si rischia un’inchiodata drammatica.