Il bisnonno di Daniele Lago di nome faceva Policarpo e di mestiere l’ebanista: ville e chiese, Venezia e dintorni, fine dell’800. Il nonno di Enrico Carraro aveva un nome più comune, Giovanni, e un lavoro legato alla terra: seminatrici, pianura veneta, 1932. Policarpo era un abile artigiano: la Lago non diventerà azienda fino a che non sarà Daniele, a decidere di occuparsene. Quella di Giovanni era già un’idea imprenditoriale, allargata presto ai trattori: la Carraro che il figlio Mario fondò poi, negli anni Sessanta, e oggi è guidata dai figli del figlio (Enrico è il presidente, Tomaso il vice), ha via via spostato il proprio core business nella produzione di assali e trasmissioni per macchine agricole, si è quotata, è diventata leader mondiale.
In comune, Lago Design e Carraro Group hanno all’apparenza molto poco. Sono family companies. Pensano globale. Mantengono un legame strettissimo con il territorio in cui sono nate e dove restano i rispettivi quartieri generali. Vicini, peraltro: da Villa del Conte (Lago) a Campodarsego (Carraro) anche con il traffico dell’Alto Padovano basta un quarto d’ora di macchina. Quindici minuti che però, per il resto, equivalgono a un viaggio agli antipodi.
Cento nomiDaniele Lago, classe 1972, 30 milioni di fatturato e 200 dipendenti, è uno di cui potete chiedere alla Milano Design Week, per esempio: vi diranno che è un protagonista e un must, ormai, della settimana più cool del design globale. Enrico Carraro, classe 1962, 600 milioni di giro d’affari e oltre 3 mila posti di lavoro tra Italia, India, Cina, Argentina, Brasile, è tra i portabandiera di tutt’altro tipo di eccellenza tricolore: le grandi fiere internazionali di macchine agricole non hanno evidentemente lo stesso allure del Salone milanese del mobile, ma è in quel circuito che si incontra chi in definitiva dà da mangiare al mondo ed è là, dentro trattori e mietitrebbia, che la meccanica hi-tech made in Campodarsego gioca da leader.
C’è qualcosa di più diverso? Un divano in un living d’autore, uno scintillante, gigantesco «mostro» in un campo da arare? No. Non c’è. Eppure l’anno scorso, quando Lago e Carraro hanno aperto le porte delle loro fabbriche a chiunque volesse visitarle, la corsa alle iscrizioni è stata la stessa. Overbooking immediato. Come nelle altre 68 aziende del Nord-Est che hanno partecipato al test di quello che ora L’Economia del Corriere della Sera, insieme a ItalyPost (l’organizzatore dell’esperimento nordestino), promuove e trasforma in evento nazionale: l’Open Factory Day, una domenica (il 25 novembre) dedicata a far conoscere le imprese-motore dell’economia. Sarà un viaggio tra cento aziende d’eccellenza — che appartengano a colossi multinazionali come la Nestlé o ai nostri piccoli-medi industriali, inclusi i Champions scoperti e raccontati su queste pagine — i cui proprietari, manager, tecnici, operai saranno lì, a guidare i lettori «dentro» il processo produttivo, a raccontare, spiegare, rispondere. Non saremo noi che organizziamo, i protagonisti: saranno gli imprenditori, con i loro dipendenti, e chi ha voglia di sapere che cos’è una fabbrica nel secondo decennio del Duemila.
Alla scoperta del manufattoLe 25 mila presenze del test nordestino 2017 hanno dimostrato che quella voglia c’è, più diffusa di quanto si immagini. Ed è reciproca: chi in uno stabilimento non ha mai messo piede è quanto meno curioso di vedere com’è, chi lo guida — se è un imprenditore doc — prende al volo la chance di mostrare che, anche quando fa «meccanica dura», non è più quell’enorme, sporco, inquietante antro buio così simile ai lager che qualcuno, ancora, dipinge.
Non è ovviamente un caso se, tra le 70 aziende che hanno partecipato l’anno scorso, abbiamo (intanto) scelto Lago e Carraro. Produzioni agli estremi opposti dell’arco made in Italy, identica passione imprenditoriale. È per quella che hanno aperto le loro fabbriche un anno fa e, a maggior ragione, le riapriranno adesso che Open Factory diventa nazionale. L’aspetto «promozione aziendale» non c’entra, anzi: non c’è. La Lago Design, per dire, ha un milione di fan su Facebook (davanti, nel mondo, solo Ikea): cosa cambierebbero mille, duemila persone in visita? E infatti, dice Daniele, quel che conta è altro: «L’apertura paga perché porta alla luce nuove realtà. La gente ha voglia di scoprire il manufatto, il modo in cui lo si pensa, quello che sanno tirar fuori i polpastrelli». Facile, con il design. Impossibile, si direbbe, con gli assali di un trattore. Eppure anche la Carraro un anno fa ha fatto il pieno: 16 turni di visite, 1.600 persone, Enrico e Tomaso Carraro in felpa bianca come tutti i dipendenti a guidare (insieme) le visite degli adulti e a gonfiare palloncini per i bambini. Perché? «Perché le aziende sono spesso chiuse in se stesse, e noi pensiamo sia invece giusto aprirle. Perché c’è grande curiosità nel territorio, e il rapporto con il territorio è fondamentale. Perché è il sistema-Paese, ad avere tantissimo bisogno di conoscere le fabbriche: e troppo spesso, ancora, l’immagine resta ferma alle fornaci dell’Ottocento». Chiamiamola cultura d’impresa. Nel capitolo che però solo gli imprenditori possono scrivere.