Eccoci dunque al tema e agli aspetti relativi al rapporto delle aziende con l’università.
Un rapporto che risulta, dalle testimonianze raccolte, assai difficile, perché, da una parte, queste aziende sono alla ricerca di un numero crescente di ingegneri e di informatici; e dall’altro hanno bisogno di sviluppare ricerca secondo standard che sono elevatissimi e contemporaneamente gestibili secondo logiche che le università italiane, a detta di molti di loro (ma non di tutti), non riescono a praticare.
Per dar conto di queste difficoltà – che non si riscontrano invece in maniera così netta rispetto al sistema di formazione delle secondarie superiori – citiamo qui due casi a loro modo estremi, ma che raccontano di un malessere diffuso.
Un’azienda ci ha confessato di scegliere deliberatamente di non aver laureati tra i suoi dipendenti. Non parliamo di un produttore di scatole di cartone (ammesso e non concesso che anche per questa tipologia di prodotto non servano innovazione e competenze), ma di uno dei principali fornitori di un player globale di un settore tanto alla moda quanto tecnologicamente ormai sempre più avanzato.
Il problema è che i laureati arrivano in azienda carichi di schemi fissi, convinti di conoscere anticipatamente le soluzioni tecniche ai problemi, incapaci di essere flessibili alle esigenze dei clienti, senza alcuna passione che li porti a essere curiosi e applicarsi nella ricerca di soluzioni tecnologiche davvero all’avanguardia – ci racconta il giovane titolare dell’azienda. – Ma lo sa che nel nostro settore conoscono a volte meglio il nostro prodotto i clienti che non i nostri venditori? Spesso le nostre innovazioni nascono da richieste specifiche che i clienti ci raccontano all’interno dei punti vendita e che poi noi studiamo ossessivamente anche attraverso esperimenti totalmente artigianali. E il big player per il quale produciamo, dopo essere stato alcuni anni in Cina convinto di poter avere un costo del prodotto più basso, è tornato da noi perché gli garantiamo la qualità ma soprattutto di essere sempre all’avanguardia tecnica con il prodotto. Lo scambio è semplice: lui paga di più e noi gli diamo innovazione e qualità. Così noi facciamo margini più alti e cresciamo di anno in anno. Con un solo laureato su 2400 dipendenti: la centralinista
conclude l’imprenditore, volendo rimarcare il primato antropologico di chi produce risultati concreti e remunerazione del capitale investito, rispetto a chi si esprime in termini più forbiti ma vive forse di troppa teoria.
Il caso che abbiamo citato dà conto di un atteggiamento oggettivamente «estremo». Ma poiché la testimonianza è di un giovane imprenditore che stravince, con quasi 100 milioni di fatturato e una redditività che supera il 20 per cento, pensiamo sia utile riportarla per sollecitare le nostre università a formare giovani che abbiano da offrire a queste imprese un di più e non un di meno rispetto ad altri.
Giovani dotati anche di passione ed entusiasmo per il lavoro che svolgono, disciplina che non si impara erigendosi aristocraticamente dietro il paravento della conoscenza, ma attraverso esperienze professionali concrete come quelle che hanno fatto gli artefici del boom economico di questo Paese.
Esperienze che, spesso, ai nostri laureati mancano. Del resto, testimonianze di una difficoltà a trovare giovani adeguatamente preparati e motivati che escono dalle aule universitarie ci sono state riferite da pressoché quasi tutte le aziende. Una difficoltà che non può essere addossata solo alle università, ma che va equamente suddivisa con le famiglie, che sono altrettanto responsabili, se non maggiormente, dei processi educativi. Resta il fatto che sono poche le università che favoriscono attivamente la conoscenza del mondo del lavoro da parte degli allievi, e pochissimi i docenti che si misurano concretamente con il mondo produttivo, preferendo, talvolta, dedicarsi maggiormente ai percorsi accademici che garantiscono una più rapida carriera.
Dove invece il rapporto si fa ancora più critico è quando si passa a parlare del trasferimento tecnologico e dei progetti di ricerca.
Abbiamo avviato quattro anni fa un progetto di ricerca con un’importante e prestigiosa università italiana – ci racconta una delle imprese più innovative. – Mi crede se le dico che in due anni il professore incaricato non si è nemmeno degnato di chiamarci per aggiornarci sullo stato di avanzamento? Sa cosa le dico? Ho capito che nelle università italiane fare ricerca per le imprese non è la priorità. E così noi siamo andati in una piccola università estera dove su questo fronte rispondono con grande tempismo e con risultati eccellenti.
Il paradosso di tutta questa vicenda è che il professore dell’università estera che adesso segue l’azienda è un italiano. Per completezza di informazioni, segnaliamo tuttavia che un’altra impresa, parlando peraltro della stessa università, ci ha riferito di avere trovato un ottimo livello di collaborazione. Indice di una realtà a volte più articolata di quanto possa sembrare. Più in generale, il problema sembra essere che l’incontro tra la domanda di queste imprese e il mondo dell’università è lasciato a coincidenze occasionali e predisposizioni personali di singoli docenti, più che a un sistema codificato e organizzato. Un doppio problema non facilmente risolvibile se non compiendo un reciproco sforzo di avvicinamento da entrambe le parti.
Anche perché la qualità della formazione universitaria, di per sé, è spesso di livello molto elevato e produce figure che sono diventate centrali in queste aziende.
Uno dei casi esemplari che vogliamo citare è quello di Pettenon, dove i titolari, entrati giovanissimi in azienda, non hanno avuto modo di frequentare le aule universitarie, ma hanno saputo sviluppare un business crescente anche grazie alle attività di ricerca di chimici e biologi provenienti da diverse università. Lo stesso avviene in un’altra industria chimica, la Biofarma di Udine, che si avvale anch’essa delle competenze sfornate dall’ateneo locale. Brevetti CEA esplicita chiaramente che senza le facoltà di Ingegneria e Ottica non potrebbe di certo competere sul mercato globale con le sue sofisticate macchine di controllo delle fiale.
Da parte delle imprese l’attenzione all’università non manca di certo, soprattutto in questi ultimi anni, se non altro, come dicevamo, per cercare talenti. Unox, forse tra le aziende più attente nella ricerca di giovani universitari, dichiara di cercare in numero crescente i laureati più aperti e dinamici, non importa di quale disciplina. In questo senso ha aperto collaborazioni con l’Università di Padova, come hanno fatto molte imprese che sono state associate a UniSmart, la società di trasferimento tecnologico dell’ateneo. Ma la ricerca di un contatto è portata avanti da molte altre imprese, come per esempio la Comelit, che ha aperto collaborazioni con l’Università di Bergamo, ospitando stage e finanziando delle borse di studio per far fare esperienze all’estero a ragazzi della Val Seriana.
In generale, tuttavia, appare chiaro che, per le imprese, l’università è vista come un passaggio necessario ma non esaustivo del processo di formazione. «Ci vuole almeno un anno di formazione interna, prima che uno di questi ragazzi sia effettivamente pronto a operare a pieno regime», ci raccontano questi imprenditori.
Soluzioni? L’unica all’orizzonte, in attesa di modelli istituzionali che favoriscano le carriere universitarie per chi produce trasferimento tecnologico piuttosto che pubblicazioni, è quella di un reciproco impegno a costruire occasioni di conoscenza e dialogo, dalle visite in azienda alle lezioni degli imprenditori nelle aule universitarie. Ma, soprattutto, la sfida che ora hanno davanti a sé le università è quella di fare dei competence center delle punte avanzate di trasferimento tecnologico alle imprese e non dei carrozzoni impermeabili al dialogo con il tessuto produttivo.
Nuove imprese. Chi sono i champions che competono con le global companies
Di Filiberto Zovico
Egea
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