Nel 1983 Italo Calvino, a proposito del suo libro “Le città invisibili”, scriveva: “che cos’è la città per noi? Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo atto d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città”. Erano gli anni della fuga dalle città. Una fuga che è continuata e che continua, salvo alcune eccezioni. I sobborghi di tutte le città occidentali sono cresciuti. Si sono creati, a cerchi concentrici, le nuove dimensioni cittadine. Definire una città oggi è quanto mai difficile se si tengono conto delle limitazioni amministrative. Il ridisegno sarebbe necessario e le mancate riforme metropolitane non sono riuscite a costruire la vera area di intervento né a dare gli strumenti per rilanciare le città stesse come nodo in collegamento con gli altri nodi. Non che le città abbiano perso valore. Anzi, alcune sono divenute più strategiche. Altre hanno perso di significato. Più commentatori hanno sottolineato la centralità di Milano nel panorama italiano ed europeo (non a caso Milano non ha perso abitanti, ogni anno guadagna una media di 30.000 persone). Il coraggio di puntare in alto attraverso la costruzione di grattaceli ha fornito a Milano una spinta propulsiva difficile da prevedere anche per chi l’ha immaginata. La modernità ha bisogno di dotarsi di modernità, non c’è alcun dubbio. Purtroppo le nostre città italiane sono rigidi organismi perché hanno una storia lunga e che si fa fatica a disconoscere. Invece, per definizione gli organismi hanno la necessità di cambiare, di mutare aspetto. Le città, ugualmente agli organismi viventi, devono rompere con il passato e trasformare i loro vecchi spazi in luoghi diversi, nuovi, capovolti. Non che non vi sia la possibilità di fare questo anche nelle “città antiche”. Milano ne è la dimostrazione. La ripartenza è avvenuta da una zona centrale – Porta Nuova – che era rimasta periferica per le sue strutture: c’era un luna park con una zona abitativa molto degradata. Nel 2004 la Giunta Albertini approva un grande progetto di riqualificazione urbana. Da lì avviene la grande trasformazione che consegna Milano ad essere una città a vocazione globale. Poi l’Expo ha fatto il resto. Ora quello che si costruirà sopra quell’area, con lo Human Technopole, consentirà a Milano di guardare, ancora di più, in faccia il futuro. Questa la semplice lezione di Milano a tutti coloro che ritengono come il passato debba solo essere preservato.
Ma le città sono sempre state importanti
In un libro del 2007, “Breve storia del futuro” (Fazi Editore), l’intellettuale francese Jacques Attali, aveva ripercorso le varie tappe dell’umanità proprio attraverso il ruolo delle città. Da sempre le città sono state il motore dello sviluppo. L’Italia, prima con Roma, e sino al 476 dopo Cristo, poi con Venezia dal 1350 al 1500, poi con Genova dal 1560 al 1620, hanno avuto un ruolo decisivo nell’occidente. In particolare, quello che Attali definisce “l’ordine mercantile”, quale primo nucleo del capitalismo, ha centrato l’asse dello sviluppo in Europa, per poi rilasciarlo in America e oggi nel Far East, grazie ai nuclei metropolitani. Sono gli addensamenti che hanno sempre fatto la differenza. Infatti, dopo l’appannamento evidente dei territori europei, le città da San Francisco a Shangai, sono i “poteri forti” della nuova economia. Sul ruolo delle città, come spazi di rottura e ricostruzione, si sofferma il recentissimo libro di uno dei più importanti sociologi viventi. Richard Sennet, non tradendo la sua passione per gli spazi condivisi, offre al lettore un potente libro, “Costruire e abitare: etica per la città”, che dovrebbe essere oggetto di studio per tutti gli amministratori locali. Sennet è un americano nato a Boston che vive a Londra. Questa sua cultura, tra il nuovo e il vecchio mondo, gli offre la possibilità di scrivere un testo molto europeo e ben poco americano. Le radici filosofiche di Sennet sono chiare e profonde tanto che il libro è un percorso molto ampio in cui innesta le sue visoni quotidiane in un quadro di riferimento culturale in grado di confermare o meno ciò che ha visto con i suoi occhi. Tutto parte dalla divisione tra “cité e ville” dove la ville indica la città nel suo complesso, e la cité un luogo specifico. La cité è uno stile di vita, un’energia, un insieme di sentimenti propri di un quartiere che spesso non coincidono con l’intera ville. Solo raramente, esempio nei tumulti del passato, la cité rappresenta le aspirazioni collettive di un’intera popolazione. Nelle città, invece, esistono dimensioni diverse, non assimilabili:
“Nel suo saggio Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica, Immanuel Kant nel 1784 osservava che “da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo non si può costruire nulla di completamente diritto”. Una città per così dire è storta e sbilenca perché è diversa e molteplice, abitata da emigranti di tutti i tipi, che parlano decine di lingue diverse, e perché contiene al suo interno ineguaglianze accecanti: signore snelle e slanciate consumano i pasti al ristorante a pochi isolati dal punto di ritrovo di netturbini esausti e stremati… Infine genera pressioni e un alto livello di stress, come la concentrazione di una massa di giovani laureati alla disperata caccia di pochissimi posti di lavoro… Può la ville in senso fisico appianare simili difficoltà? I progetti per rendere pedonale una via del centro possono avere un rapporto con la crisi degli alloggi? L’uso di vetro borosilicato aumenta la tolleranza collettiva verso gli immigrati? La città sembra storta perché esiste un’asimmetria tra cité e ville.”
Le città pensano soluzioni difficili
Il fil rouge di “Costruire e abitare: etica per la città” sta nel costruire città pensanti, non accomodanti. Le spinte verso la diversità, da una parte, e verso la tecnologia, dall’altra, rischiano di consegnare – ai chi le vive – degli spazi che non aiutano a comprendere la complessità che stiamo vivendo. L’immigrazione non si può banalmente fermare con la chiusura dei porti, né tantomeno con la creazione di hot spot. L’immigrazione è parte di un nuovo mondo che non si può rifiutare perché prima o dopo ritorna. Chiudersi in se stessi è solo un artifizio temporaneo. La storia, parte intrinseca della natura, deve fare il suo percorso. Nel 1512 molti profughi si stabilirono a Venezia. Erano ebrei che avevano un’ottima cultura: i medici in particolare erano particolarmente bravi e preparati. Ecco che allora i veneziani, avendo la città le caratteristiche fisiche per poterlo fare, creano un luogo dove confinarli. In particolare il Ghetto Nuovo era una porzione di terra romboidale circondata dalle acque su cui vengono costruiti appositi muri di cinta. Nel Ghetto Nuovo vengono confinati gli ebrei gestendo quel lembo di terra come un’isola collegata con il resto della città con due ponti che si alzavano al mattino, per far uscire i professionisti, e si abbassavano alla sera, per farli rientrare nelle loro case. In questa piccola città nella città, gli ebrei godevano di una loro indipendenza, sicurezza e diritti. Gli ebrei si innestarono nella storia di Venezia pur non essendone totalmente parte e condussero una loro esistenza attraverso la loro capacità di conformarsi a quel contesto. Al contempo la città di Venezia seppe trovare un punto di equilibrio con una diversità che faceva fatica a conciliare totalmente. Tanto che nel tardo Medioevo, i veneziani concedono agli ebrei di costruire delle sinagoghe che diventano un luogo di scambio culturale con la città. Si tratta di una integrazione avvenuta per interessi, con una sua modularità e senza strappi. Se nel ‘500 i nostri antenati sono riusciti a compiere questo, tenuto conto della cultura dell’epoca, sorge spontanea la riflessione su quale livello di idiosincrasia sia scattata negli ultimi anni in Italia tanto da generare questo odio così generalizzato verso lo “straniero nero”. Non possono essere i bivaccamenti alla stazione o i furti nelle nostre case (tra l’altro, in diminuzione) le ragioni di questa insofferenza.
Google City?
L’altro livello di riflessione che compie Sennet è sulla smart city. Il rischio per l’autore è quello di fabbricare città easy che abbassano il livello cognitivo. Una città che semplicemente funziona riduce la capacità delle persone che la vivono ad affrontare i nuovi problemi che avanzano. Come i bambini che dalla vita in famiglia hanno tutto ciò che desiderano senza alcuno sforzo, e che alla prima difficoltà si trovano nel panico, le città possono diventare un luna park che non aiutano a riflettere e a mettere a punto la ricerca di soluzioni sociali che mai la tecnologia riuscirà a definire (interessante l’esperienza che sta compiendo su questo fronte la città di Barcellona che vede a capo dell’assessorato all’innovazione una giovane economista italiana: Francesca Bria). Per Sennet anche gli spazi aziendali, come si stanno oggi configurando, rischiano questo ammutinamento del pensiero:
“Togliendo le pareti interne di un edificio, si pensa, il progettista rimuove anche il “silos” mentale in cui i dipendenti si isolano. Ma un semplice spazio aperto in sé non facilita lo scambio creativo; gli architetti che progettano uffici, come Frank Duffy, criticano l’idea di spazi completamente aperti in cui c’è una marea di scrivanie dove chiunque può sedersi –hot-desking o sistema di postazioni mobili. In questo ambiente neutro, la gente tende a stare in silenzio, fissando lo schermo dei computer invece di scambiarsi ogni tanto qualche commento. Uno spazio aperto deve essere ammobiliato attentamente per stimolare i dipendenti e avere un tocco personalizzato; deve diventare quello che Duffy chiama un “office-scape” (da office, ufficio, e landscape, paesaggio, un paesaggio di uffici).”
Non poteva mancare in questa analisi sul ruolo etico delle città uno spazio alla metafora tanto cara a Sennet: l’artigiano. E’ buon consiglio per gli urbanisti, quello che offre Sennet, ma in realtà è un invito a tutti noi: serve la capacità di riconfigurare la città in cui viviamo come l’artigiano opera con il suo fare quotidiano. Se il restauro è la capacità di riprodurre l’oggetto uguale a prima; il rimedio, la possibilità di rimodulare il passato tenendone i codici; la riconfigurazione, quale elemento in grado di creare un oggetto completamente diverso alla funzione che aveva prima, deve essere il motivo ispiratore di oggi. Sennet sembra aver preso buona la lezione di Milano: serve una riconfigurazione delle nostre città che accetti le turbolenze passando anche attraverso delle rotture con il passato.
Titolo: Costruire ed abitare: etica per la città
Autore: Richard Sennet
Editore: Feltrinelli
364 pp; 25 euro