«Chiederemo al Parlamento di non ratificare il Ceta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Canada perché tutela solo una piccola parte dei nostri prodotti Dop e Igp», ha detto tre settimane fa, in un’intervista, il ministro per l’Agricoltura Gian Marco Centinaio.
Ratificare o no. Cosa cambia?
Se l’Italia si fermasse alla “non ratifica” il Trattato continuerebbe però a ”vivere”, almeno in tutti quei capitoli – dall’addio ai dazi e alle barriere regolatorie, dalla tutela delle Igp alle aperture sugli appalti – che non sono di diretta competenza nazionale. Resterebbero, insomma, “congelate” solo le norme sulla disciplina degli investimenti e quelle sui controversi arbitrati “privati” per la risoluzione delle controversie Stato-investitore. Se, invece, il Parlamento lo bocciasse con un no esplicito, allora il Ceta potrebbe cadere per tutti i Ventotto. Lo prevede il Trattato stesso. Perchè la ratifica nazionale prevede l’unanimità. E al momento si sono già espressi per il sì solo 11 paesi su 28: Danimarca, Lettonia, Estonia, Lituania, Malta, Spagna, Portogallo, Croazia, Repubblica Ceca, Austria e Finlandia.
Insomma, non sono i ritardi nella ratifica che possono bloccare il Ceta, ma un veto parlamentare messo nero su bianco.
Chi ci sta guadagnando
Ma sinora, a pochi mesi dalla sua entrata in vigore, il Ceta conviene davvero?
«Il Ceta conviene, principalmente a noi, europei e italiani – sottolinea Paolo Quattrocchi, partner dello studio Nctm e presidente del Centro studi Italia-Canada –. I numeri parlano chiaro. A 5 mesi dall’implementazione del Ceta (ottobre 2017-febbraio 2018), secondo l’Ufficio Ice di Toronto, le esportazioni italiane verso il Canada sono cresciute del 12,8%: 2,9 miliardi di euro rispetto ai 2,2 miliardi dello stesso periodo dell’anno precedente. Mentre è più lenta la crescita delle importazioni italiane dal Canada, cresciuta appena del +2,5 per cento. Dai dati emerge, poi, che i settori che hanno beneficiato di più della liberalizzazione quasi totale del mercato sono i macchinari (+8%), il comparto agroalimentare (+15%) e i mezzi di trasporto (+15%)».
Food e molto altro
Sono stati aboliti il 98% dei dazi doganali, che prima del Ceta erano, in media, di oltre il 18% sull’abbigliamento, dell’11% sul food e di quasi il 10% su macchinari e mobili.
L’applicazione pratica dell’accordo non è certo esente da criticità. Ci sono resistenze su entrambe le sponde. Ad esempio, il Canada si è impegnato a importare più formaggi. Ma il risultato è che acquista quelli europei “low cost”. Noi e i francesi siamo al palo. E, da parte nostra, è bastato insinuare, via web, che il grano duro canadese non sia sicuro, per indurre i nostri produttori di pasta ad azzerare le forniture. Delle 171 Dop e Igp tutelate nel Ceta, 43 sono italiane. Ne abbiamo centinaia. Sono poche? Forse. Però solo 5, tra quelle 43, fanno il 95% di tutto il nostro export Igp. Possiamo esportare in Canada il prosciutto di Parma (fino a ieri impossibile per un marchio depositato decenni fa) e, per le imitazioni, non sarà possibile usare false evocazioni di italianità.
«E poi non va dimenticato tutto ciò che non è food – aggiunge Luca de Carli, funzionario della DG Trade della Commissione Ue –. C’è il riconoscimento delle certificazioni per una serie di settori, dalle auto ai mobili, alla chimica. È migliorata la protezione sui brevetti europei dei farmaci. Le imprese europee hanno ora accesso al sistema degli appalti a tutti i livelli. Architetti, contabili, ingegneri potranno vedere riconosciute le proprie qualifiche professionali. Taglia costi e tempi per gli esportatori iscritti alla banca dati Rex». Infine, sono di 250 miliardi gli investimenti Ue in Canada e di 228 miliardi quelli canadesi in Europa. A chi conviene riavvolgere il nastro?