La sfida del ministro dell’Economia Giovanni Tria per rilanciare l’Italia si chiama investimenti. Lo dice e lo ripete in ogni occasione: ed in effetti gli investimenti pubblici, quelli cui si riferisce principalmente il ministro, sono in drastico calo. Basta vedere le cifre ufficiali che testimoniano come negli ultimi dieci anni, dal 2007 al 2017 sono precipitati del 46,5 per cento, scendendo da 24,9 a 13,3 miliardi.
Colpa innanzitutto del sistema- Italia, oltre che della crisi economica,dall’illusione del Ponte sullo Stretto, di cui anche nella passata legislatura si è tentato un fugace rilancio, passando per la storia infinita della Salerno- Reggio Calabria conclusa dopo trent’anni di malversazioni e scandali, fino alla Tav la vicenda dove a bloccare l’innovazione infrastrutturale è proprio l’opposizione ambientalista dei grillini. Anche quando si arriva al capolinea il risultato non è assicurato: o ci sono extra costi (basti pensare che l’alta velocità dal 1991 al 2010 è lievitata del 536 per cento) oppure fa capolino la sottoutilizzazione ( che viene imputata, ad esempio, all’autostrada Brebemi).
La sfida del rilancio degli investimenti pubblici, cui sta lavorando il Tesoro,dovrà superare anche questi ostacoli: senza cedere alla tentazione di accantonare il codice degli appalti al quale i grandi costruttori imputano ritardi e eccessi burocratici ma che ha costituito un argine al malcostume. Negli allegati al Def degli ultimi anni dedicati agli investimenti si è denunciato più volte l’aspetto maggiormente critico nella realizzazione delle infrastrutture: i tempi per il completamento di un’opera vanno da 2 a 15 anni.
Tria, che ha deciso di nominare una task force sul tema, ha spiegato in Parlamento che «il governo è consapevole che i maggiori ostacoli alla spesa pubblica per investimenti non vengono dalla carenza di risorse finanziarie, bensì dalla perdita delle competenze tecniche e progettuali delle amministrazioni pubbliche, dalla spesso difficile interazione tra le amministrazioni, sia centrali sia territoriali, e dagli effetti, non voluti, del recente “codice degli appalti”».
La parola magica, tuttavia, superate tutte queste perplessità si chiamerebbe “moltiplicatore” e risponde alla domanda: quanto Pil mi dà un investimento pari ad 1? Risposta: uno e mezzo. Dunque se si riuscirà ad attivare un punto di Pil in più di investimenti, ovvero 17 miliardi, si potrà contare un una crescita incrementale di un punto e mezzo di Pil, superare grosso modo la soglia del 2,5 per cento ( oggi stiamo scendendo verso l’1 per il 2019).
Resta da chiedersi dove trovare i soldi per realizzare lo stesso miracolo di Roosevelt con il New Deal negli Anni Trenta ( che svalutò il dollaro del 40 per cento e fu aiutato dalla Seconda guerra mondiale). Certo i vecchi libri di economia suggeriscono questa strada: ma bisognerà anche mettere d’accordo gli “ azionisti” gialloverdi che non sempre hanno idee concilianti. Salvini, ad esempio, vagheggia 20 miliardi di opere al Sud per «rimettere l’Italia al centro del Mediterraneo e avvicinarsi a Suez » , senza considerare che forse oggi contano più le autostrade informatiche e il capitale umano. Bussare a Bruxelles? L’idea della golden rule, cioè lo scorporo degli investimenti dal rapporto deficit-Pil, che l’Italia sembra intenzionata a chiedere a Bruxelles non è nuova: non è facile da ottenere perché bisogna riscrivere il Patto di stabilità e perché richiede un controllo meticoloso, soprattutto sull’Italia, posta per posta, per verificare se si tratta di veri investimenti o di altro.
Tutto ciò mentre l’economia rallenta: l’Istat parla di «nuova decelerazione » e Standard & Poor’s rivede al ribasso il Pil di quest’anno all’ 1,3 da 1,5 per cento e conferma l’1,2 per il 2019. Il Tesoro parla di « lieve decelazione » dovuta all’export soprattutto a causa dei dazi Usa. Quanto alle finanze pubbliche Tria fa sapere che «non è in discussione un allentamento dell’attenzione del governo sul consolidamento dei conti che proseguirà » . Il Tesoro conferma che il percorso del Def è « troppo drastico » ma dice anche che è « prematuro » indicare il nuovo obiettivo programmatico dell’1,3-1,4 per cento nel 2019.