L’obiettivo è «ambizioso», e lo ha riconosciuto lo stesso ministro dell’Economia Giovanni Tria illustrando il programma di politica economica alle commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato. Ma è il cuore della strategia per ridisegnare il bilancio pubblico, e segnare una «discontinuità» con il passato rivendicata ieri più volte da Tria a Montecitorio. In sintesi, si tratta di congelare in termini nominali la spesa corrente, interrompendo la sua crescita più o meno collegata alla dinamica del Pil a seconda degli anni, per dedicare agli investimenti tutti gli spazi di bilancio. In cifre, dati dell’ultimo Def alla mano, significa evitare un aumento (al netto degli interessi) già previsto per 10,3 miliardi il prossimo anno, e per 33,3 miliardi nel 2019-2021. Guardando solo alla Pa centrale, la sfida è da 3,3 miliardi per il prossimo anno e da 11,8 per i prossimi tre.
Sfida complicata, mentre a dicembre scade il contratto appena rinnovato per tre milioni di dipendenti pubblici e aumenta la pressione per spingere la spesa sanitaria. Senza contare i pilastri del contratto di governo, che Tria conferma ma in un’ottica «di legislatura». Welfare, fisco e investimenti saranno nell’agenda di tre task force che dovranno produrre risultati «entro settembre»: il reddito di cittadinanza è «ben definito ma si può articolare in vari modi», e il gruppo di lavoro sul tema dovrà fare una «due diligence sulla spesa per le politiche di welfare» per far quadrare i conti con gli obiettivi di riforma. La squadra interministeriale sul fisco dovrà studiare la Flat Tax da attuare a tappe e «in un quadro coerente di politica fiscale».
Ma è il riequilibrio fra spesa corrente e investimenti il cuore del programma disegnato da Tria per creare uno «stimolo endogeno» alla crescita in grado di emancipare un po’ l’economia del Paese da una congiuntura che dà segnali preoccupanti. Guerre commerciali e frenata delle importazioni Usa si stanno già facendo sentire su un Pil italiano che viaggia a ritmi un po’ inferiori rispetto all’anno scorso, e apre a «rischi di moderata revisione al ribasso» della crescita a +1,5% messa a preventivo nel Def. Per evitare sorprese, insomma, all’economia italiana serve un motore più “autonomo”, e la benzina va cercata negli investimenti, prima vittima della crisi di finanza pubblica. Giusto ieri, negli stessi minuti in cui Tria parlava nella Sala del Mappamondo, la Ragioneria ha diffuso le serie storiche aggiornate con il rendiconto dello Stato approvato la scorsa settimana in consiglio dei ministri: e le tabelle mostrano che nella Pa centrale la spesa in conto capitale è crollata del 37,3% in dieci anni. Negli enti locali la stessa voce si è dimezzata, determinando secondo Tria «una situazione drammatica per la competitività italiana».
Ma «un’azione immediata che dia il senso della svolta» è per il titolare dell’Economia la condizione necessaria per avviare una nuova «contrattazione in Europa» sul percorso di aggiustamento strutturale, dopo aver chiesto flessibilità con la clausola investimenti senza essere riusciti a riaccendere la spesa. Alla luce dei primi confronti con la commissione, Tria conferma di non attendersi la richiesta di manovra correttiva. E fissa l’obiettivo di «non peggiorare» l’indebitamento strutturale che quest’anno è all’1% del Pil e secondo i programmi dovrebbe scendere l’anno prossimo allo 0,4%. La richiesta di flessibilità, insomma, dovrebbe aggirarsi sui sei decimali di Pil (10 miliardi), e in ogni caso spuntarne 4-5 darebbe una grossa mano a bloccare gli aumenti Iva. Con l’economia a rischio frenata, del resto, Tria spiega di voler evitare misure che «pesantemente procicliche», senza però mettere in discussione la riduzione del debito. In ogni caso, già nel suo primo passaggio alla Camera Tria aveva spiegato che la flessibilità non dovrà alimentare spesa corrente.
Quello prefigurato dal ministro è un confronto serrato con Bruxelles, con tanto di opzioni di veto sui temi più indigesti in fatto di governance e di «ingerenze» sull’unione bancaria. Il debito va ridotto prima di tutto per evitare la reazione dei mercati, e il punto viene accolto «con molto favore» dal predecessore di Tria, Pier Carlo Padoan, che però accusa il governo e soprattutto la maggioranza di aver «fatto perdere svariati miliardi per 100 punti base aggiuntivi di spread».