Cos’è il minimalismo? Il termine ha origine dall’arte. Nel 1965 il filosofo dell’arte inglese Richard Wollheim nell’articolo intitolato, Minimal Art, all’interno della rivista Arts Magazine, ne tratteggiava le caratteristiche. Dalla riduzione minimale applicata all’arte, il minimalismo è passato alla letteratura, al design e alla moda. Nella moda il minimalismo ha avuto molti interpreti, Martin Margiela, Jil Sander, Yamamoto, Calvin Klein. L’interprete principale, soprattutto negli anni ’90, è stato Helmut Lang. Lo stilista austriaco con i suoi codici di pulizia, i tagli netti, concettuali dove il bianco si oppone al nero in una logica di severità, ha segnato un’epoca. La sua moda è diventata arte, cercando di puntare ad una sublimazione dello spirito. Nel frattempo il minimalismo è stato fatto proprio da un brand “democratico” come IKEA ed è entrato in molte delle nostre case: semplicità, razionalità, quadratura delle forme sono elementi che fanno parte del nostro quotidiano. Si sono perfettamente inseriti in spazi abitativi più limitati, contrassegnati da un risparmio funzionale. Il minimalismo ha trovato spazio, non solo nelle case, ma anche negli headquarters aziendali: bianco, open space, vetrate hanno trovato cittadinanza in molti uffici, talvolta a discapito della funzionalità. Tanto che i moderni uffici si somigliano si somigliano un po’ tutti; tutti sembrano usciti dalla matita dello stesso architetto. Anche la tecnologia ha subito il fascino del minimalismo. Steve Jobs lo ha adottato fin dall’inizio con i suoi Mac: “Less is more” è diventato un suo mantra. La frase viene attribuita all’architetto tedesco Ludwig Mies van de Rohe. O meglio, a lui viene attribuito l’utilizzo di questo concetto. E’ l’opposto dello stile rococò, dell’abbondanza, degli orpelli: togliere per arrivare all’essenziale; togliere per arrivare al puro; togliere per vedere l’anima delle cose. Il minimalismo ha avuto un tale successo negli ultimi vent’anni da assurgere ad una filosofia di vita che punta ad una vita esistenziale. Fa parte della radice minimalista la ricerca di vivere a contatto con la natura, l’ecologismo, lo yoga. Sono tutte pratiche che portano l’uomo a guardare alla sua esistenza da una prospettiva diversa, più umana e valoriale. Il togliere è la cifra che le accomuna. Il minimalismo ha avuto, ed ha, uno spazio importante soprattutto in alcune categorie di persone. Quelli che vivono nelle città oppure quelli che hanno deciso – volontariamente – di uscire dalle città. Uno stile di vita che ti rende differente rispetto ad altri e che, in particolare, ti rende differente rispetto a quello che eri tu in passato.
Gli intermittenti
C’è poi una cultura collaterale, subalterna, o meglio, aggiuntiva al minimalismo. Anche qui si punta a sottrarre. Il gioco però è intermittente e raramente cambia le regole del gioco. Ci si muove sulla stessa scacchiera, senza rivoltarla. L’appagamento deriva dall’intenzione più che dalla realizzazione. La potremmo definire una cultura minimale. Il minimalismo tenta di andare in profondità. Il minimale è come il cormorano: pesca sotto il pelo dell’acqua ma rimane un uccello. Qui dentro c’è uno spazio di vissuto ampio, largo, orizzontale. Dentro ci sono più di qualche generazione: chi oggi ha tra i 35 e i 45 anni. In realtà, molto probabilmente, l’età sfonda in basso e in alto. Finita l’epoca delle ideologie, delle religioni, delle grandi utopie, è iniziata la fase dell’esistenza dedicata alla sopravvivenza. Per carità, qui tutti vivono bene, non c’è scarsità di cibo, i diritti fondamentali sono garantiti. Il livello culturale, quello determinato dagli studi, è buono. Si direbbe di cultura universitaria. Insomma, si fa riferimento a “La gente che sta bene” (Marsilio), per richiamare un romanzo di qualche anno fa, scritto dal milanese Federico Baccomo Duchesne. Gente che capisce come gira il mondo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Persone che fanno la differenza nel mondo del lavoro. Hanno però deciso – più o meno inconsapevolmente – che non vogliono cambiare il mondo. Non ne hanno la forza ideale, forse perché non hanno conosciuto la scarsità. Cercano di dedicare il tempo che rimane per la loro individualità. Gente che bilancia la solidarietà e l’egoismo sapendo che prima di tutto deve arrivare l’appagamento ai propri sensi. Il week end lo passano in una beauty farm e la sera portano, diligentemente, negli appositi spazi, la carta o l’organico differenziando anche il pezzetto di plastica attaccato alla carta. La famiglia, come la comunità in cui vivono, sono una commodity che va coltivata, in funzione del loro presente e del loro futuro.
Qui nessuno affonda
Una culturale minimale perché non concede, ne permette, di affondare. Nel senso che non scende, e nel senso che sopravvive. Gente che galleggia, non decide di pestare i piedi, si riserva spazi di dissenso al massimo solo sui social. Tutto fuori da sé, in modo da non contaminare il sé. Di tutta questa poltiglia umana – oggi – abbiamo il romanzo che ne racconta le vite, le miserie, le aspirazioni, la grande normalità. Già dal titolo, “Le vite potenziali”, il romanzo di Francesco Targhetta, abbiamo la sintesi perfetta: a nessuno manca nulla – di base – per vivere una vita vera. I tre protagonisti sono “stilisticamente” perfetti. Sono esistenze, in potenza, da manuale. Alberto è un imprenditore nel mondo dell’informatica; Luciano, un quasi suo socio; Giorgio, o meglio GDL, un pre-sales affamato di “orgasmi” contrattuali. La scenografia in cui si muovono i tre attori di questa vita minimale è l’area che va d Treviso a Marghera. Potrebbe essere ambientato in un luogo diverso questo romanzo? Probabilmente sì, perché il suono di sottofondo è uguale. Oggi le periferie o le città satelliti sono tutte uguali. Disegnate da geometri o architetti minimali. Ma “Le vite potenziali” è un romanzo impastato con queste terre, la farina è quella del Nordest. E il risultato lo si nota. Alberto, Luciano e Giorgio hanno di diverso un provincialismo che non li abbandona mai, nonostante si muovano – a causa del loro lavoro – in uno scenario internazionale. Una specie di senso del limite che li tormenta. Quando GDL fa il doppio gioco lavorando per l’azienda di Alberto e contemporaneamente per un’altra, cercando di trascinarsi in questa avventura Luciano, rimane di sottofondo un’amarezza per quello che sta facendo. E’ un amarezza che viene dal passato, da quella cultura contadina che fottere rimane un peccato. Anche quel gesto inconsulto di rubare un carrillon in un b&b austriaco, dove avevano soggiornato insieme, rimane un gesto che rappresenta più la voglia di attenzione verso il capo che di non rispetto per le convenzioni. I tre, nella loro commedia umana, non sono degli sprovveduti. Si rendono conto della parte che sono costretti a interpretare.
Ma tutti cercano amore
Targhetta ha una grazia e una dolcezza tutta speciale nello scrivere questo romanzo. Non esprime giudizi di valore definitivi. O meglio, nel suo tracciare visoni apocalittiche si astiene a dare colpe nette. D’altra parte in vite geneticamente modificate si può esprimere una sentenza? Luciano, l’introverso – quello da leggere con più attenzione -, e forse per questo quello più tormentato dentro, si innamora tre volte nella sua vita, e per tre volte non trova corrispondenza. Lui non vuole molto, solo la possibilità di dare un po’ di amore. Anche in questo suo bisogno, Luciano, trova la via di uscita, la sopravvivenza:
“Perché poi, quando si cresce, e si lavora, e si diventa contribuenti, e tutti attorno vanno a convivere, si sposano, figliano, con loro legittimo conforto, persino con felicità, ritenendo la loro vita frutto di una scelta, adulta e matura, il sollievo di chi è rimasto escluso dall’amore è quello, almeno, di non aver scelto niente, di non essere responsabile di nulla, di non avere colpe per il disastro collettivo, di non aver apportato il benché minimo contributo alla devastazione generale, di non essere diventato davvero grande, di non essersi compiuto secondo il disegno superiore, e dunque di potersi ritenere ancora, in qualche modo, vivo, salvo dall’incapsulamento nella bara dell’esistenza, e così si diventa orgogliosi della propria mancata scelta, si sfoggia il vestito che è toccato in sorte, la coccarda che lo fregia, il papavero rosso, lo stigma rivoluzionario, riducendosi, in sostanza, a una creatura anfibia –perché il desiderio non smette, sotto, di pulsare, e perché tradire fino in fondo il mondo traditore è un’impresa che non si riesce a portare a termine; anche se, a ben vedere, proprio questo dovrebbe divenire il criterio su cui valutare la statura di un uomo.”
Gli affari della Albecom, l’azienda di Alberto, si susseguono tra alterne vicende. Il lavoro, di cui è profondamente intessuto questo romanzo, è lo sfondo perfetto in cui i tre protagonisti cercano schegge di amore. D’altra parte il lavoro non è un di cui in questa nostra società. Che tu ce l’abbia o non ce l’abbia, quello è il vissuto principale. Il lavoro è la trama che sostiene il tutto. Targhetta, nelle pagine che scrive, racconta vite minimali che a loro modo hanno trovato un equilibrio. Sempre e solo precario, come solo l’equilibrio può contenere nella sua fugacità: la vera cifra della contemporaneità. Dentro quell’equilibrio le relazioni con gli altri sono il filo che legano il tutto: vizi e virtù. Raymond Carver, il grande poeta americano, da molti considerato l’autore minimalista per antonomasia, pur essendo lui contrario a questa definizione di genere, ne “Il nuovo sentiero per la cascata” (Minimum Fax), scriveva:
“E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi amato sulla terra.”
Titolo: Le vite potenziali
Autore: Francesco Targhetta
Editore: Mondadori
pp. 252, Euro 19.00