La Chiesa ha sempre avuto bisogno delle immagini sia per umanizzare Dio nel volto di Cristo sia per rendere semplici, chiare, e quindi di facile comprensione, i vangeli a chi, nei secoli passati, non sapeva nè leggere né scrivere. Ma gli stessi vangeli sono fatti per essere raccontati attraverso le immagini. E’ un “Dio emotivo” che nel farsi uomo, e quindi corpo, deve essere raccontato. Le quattordici stazioni della via crucis, e la rappresentazione in ogni chiesa del pianeta, ne sono l’emblema. L’uso delle immagini crea una sensazionalità che la parola non può proporre. I giornali, nel tentativo di recuperare alcuni lettori, lo hanno capito e negli ultimi anni hanno deciso di “impiattare” la prima pagina con foto che richiamano all’evento della giornata precedente. Non sono quasi mai immagini che riguardano la politica o l’economia. Sono immagini di fatti di gossip, cronaca nera. Cose che attivano i processi neuronali del sensazionalismo. Lunedì 21 maggio in molti quotidiani nazionali capeggiava, in posizione centrale, la foto del manager di Chieti che aveva deciso di suicidarsi, gettandosi dal cavalcavia, dopo aver ucciso moglie e figlia. Era “perfetta” per il colpo d’occhio: un uomo aggrappato ad una rete metallica prima di gettarsi nel vuoto. La metafora della fiction della vita: innamoramento, resistenza, morte, direbbe T.S. Eliott. Anche il giornale poteva partecipare all’evento raccontando non solo l’atto finale – la fine della vita – ma anche l’atto precedente – il momento intercorrente tra la vita e la morte -. Lo stesso Roland Barthes, con la sua retorica delle immagini, avrebbe sicuramente avuto molto da scriverci. In quella foto, e in quella posizione all’interno dei giornali, c’è molto di quello che stiamo vivendo. Da una parte la domanda ricorrente che tutti ci siamo posti: “perché un manager di buona famiglia con una bella famiglia ha deciso di tirare una riga alla sua vita in un pomeriggio domenicale”? Dall’altra parte ci si chiede perché questa vicenda abbia colpito maggiormente l’immaginario collettivo rispetto ad altre vicende simili, tanto che a distanza di un mese i dettagli sull’argomento sono ancora fonte di notizie.
Due domande, una risposta
In realtà la risposta alle due domande – forse (il dubitativo è d’obbligo) – è contenuta in una stessa risposta: l’insensatezza. Probabilmente il sovradimensionamento del fatto, e della sua notiziabilità, sta nell’assenza di ragioni, nella non presenza di motivi. Nessuno sa cosa è avvenuto nella testa di Fausto Filipponi, nessuno conosce i suoi deliri. In questa assenza di spiegazione è ancora più evidente il riflesso dell’insensatezza della sua vicenda. Un’insensatezza che però è così vicina a tutti noi che ci colpisce. Ci colpisce perché ci appartiene. Ognuno di noi vive vite in cui cerca di aggrapparsi a qualcuno o a qualcosa. Ognuno di noi sperimenta il vuoto quale mancanza di senso nei vari pezzi della nostra quotidianità. Non sta tanto nel fatto che una persona normale, come potremmo essere ognuno di noi, decide di fare un gesto incomprensibile, cioè non decodificabile. Il tema è che ognuno di noi vive vuoti di identità simili a quelli che Filipponi ha vissuto. Il suicidio non è una categoria che non ci appartiene. La differenza sta in chi lo pratica e chi no. Qualche psichiatra sostiene “in chi ha la forza e chi no”. La vicenda di Filipponi è un pugno nello stomaco, un secchio di acqua gelata che ci colpisce perché parla a noi, non ad altre categorie di persone. Sta nella normalità la sua eccezionalità e sta nella eccezionalità la sua normalità. Nel rimanere avvinghiato a quella rete si è celebrato l’atto di resistenza che ognuno di noi tenta di fare ogni giorno. Mai tale immagine poteva sintetizzare l’odierna situazione. La differenza sta nelle condizioni in cui Filippone si era posto: prima o dopo avrebbe dovuto cedere. Noi esercitiamo quell’atto consapevoli che sotto c’è una protezione, un materasso, che ci salverà. Quel gesto contiene anche la necessità di un’insensatezza sensazionale. Lui sapeva che sarebbe finito sui giornali. O meglio, il suo è stato un grido lento, durato 7 ore, di profondo dolore che conteneva il desiderio di affermare la sua presenza: “IO esisto, IO ci sono”. Come a dire: “Voi non vi siete accorti che io esisto. Io vi dico che ci sono, invece.” Questa sensazione, direbbe Christoph Turcke, “diventa una necessità vitale”. Siamo di fronte al selfie della morte che urla la vita.
L’empatia per vivere
Filippone aveva perso sicuramente il contatto con l’esterno a se stesso. Era entrato nel suo mondo e non riusciva a vedere se non il suo spazio. Non c’era più il contatto con l’altro. Non c’era più la compassione per la moglie, la figlia. L’empatia, quale set di emozioni fondamentali per mettersi nella testa dell’altro, era disattivata. Il radar della convivenza aveva cessato di funzionare. Noi non potevo saperlo. Probabilmente non potevamo accorgersene perché attiene alla normalità, non alla eccezionalità della vita. Diventa difficile, dopo aver tentato di dire qualcosa di poco sensato su questa vicenda, consigliare un libro. Ma la lettura di “Empatie”, di Laura Bolella, porta a riflettere sulla necessità di guardare all’empatia in modo distaccato, molteplice. Un libro che può aprire dei dubbi su come ognuno di noi dialoga con l’altro e rischia di distruggere il proprio io. L’empatia è una virtù che viene giudicata di fondamentale importanza per la nostra esistenza. In realtà potrebbe essere la fonte della nostra deriva sensazionalistica. La radice dell’empatia è guardare il mondo dentro di noi in rapporto agli altri. Il problema è capire a quale mondo si fa riferimento. A quale perimetro si guarda. Il limite tra altruismo e egoismo è labile, vicino. Talvolta si scambia di ruolo senza che noi ce ne accorgiamo.
Spazio a noi o hai migranti?
Tanto per stare ai temi di questi giorni, la questione dei migranti e dei loro respingimenti ci mette a confronto con la necessità di proteggere le nostre comunità e, contemporaneamente, la necessità di aiutare popoli in fuga dalla miseria e dall’oppressione. Empatici verso i nostri simili o empatici verso chi ci sta lontani? Che tipo di responsabilità usiamo e quali azioni attiviamo verso i due differenti scenari? L’empatia ha una sua morale, più morali o è solo morale? La parte più interessante del libro della Bolella sta nel osservare come le empatie giocano su piani diversi. La vicenda della shoah è paradigmatica su questo fronte. Milioni di tedeschi hanno voltato la faccia dall’altra parte quando accadeva. Allo stesso tempo, molti di noi viviamo la nostra incapacità profonda a comprendere il più grande e assurdo genocidio dell’umanità:
“Prendere in considerazione la fragilità dell’empatia non è dunque semplicemente consapevolezza dei suoi limiti e dei suoi lati oscuri e, quindi, ridimensionamento delle sue pretese di miglioramento del mondo. Si tratta di un gesto di concretizzazione, di più esatta conoscenza che mette a nudo la varietà degli incroci tra l’esperienza del vissuto dall’io e l’ampio orizzonte delle vite degli altri storicamente, socialmente e culturalmente.”
Ludwig Wittgenstein, uno dei principali filosofi del linguaggio, diceva:
“Non è vero che sappiamo sempre quali sono le nostre intenzioni, è più vero che sappiamo sempre dire quali sono le nostre intenzioni”.
Questa piccola grande verità si sta allargando come una faglia in un continuo terremoto. L’empatia, e la sua fatale assenza pur in un mondo pieno di emozioni a basso costo, rischia ogni giorno di aprirla sempre di più.
Titolo: Empatie
Autore: Laura Bolella
Editore: Raffaello Cortina Editore
212 pp; 13 Euro