Nel Simposio, il più conosciuto dei dialoghi di Platone, Aristofone racconta la storia di quei primi uomini che avevano due facce, quattro gambe, quattro braccia e due organi sessuali tondi. La loro potenza era tale da tentare di scalare il cielo e mettere da parte gli dei. Zeus rispose così: “Credo di aver trovato il modo perché gli uomini possano continuare ad esistere rinunciando però, una volta diventati più deboli, alle loro insolenze. Adesso li taglierò in due uno per uno, e così si indeboliranno e nel contempo, raddoppiando il loro numero, diventeranno più utili a noi”. Ma Zeus dovette intervenire nuovamente visto che così gli uomini morivano di desiderio. A quel punto mandò nel mondo Eros per dare la possibilità agli uomini di ricongiungersi E riprendere quell’unità perduta. L’interpretazione che a scuola ci hanno fornito di questo dialogo, sta tutta nel desiderio e nel rapporto con l’amore. In realtà Aristofane potrebbe dirci molto di più. Ognuno di noi pensa di essere unico e ognuno di noi pensa di vivere in un solo mondo. Aristofane ci offre la riflessione sull’alterità. La visione di quella che potremmo definire “le due facce della stessa medaglia”: nessuno può vivere da solo se non con il suo opposto. Esiste un dritto ed un rovescio. Tutti noi vogliamo essere felici. Ma come possiamo conoscere la felicità senza aver provato l’infelicità? Il limite è tale perché esiste il possibile e l’impossibile. Senza questa alterità non esiterebbe la definizione di ciò che ci impedisce di andare oltre. Al contempo non vi sarebbe lo spazio per tentare di rompere il limite. Ognuno di noi ha delle cose che sa fare – il possibile. Ognuno di noi conosce le cose che non può fare – l’impossibile. Queste due categorie non hanno una frontiera confinante. Prima della frontiera c’è un luogo in cui la persona può sperimentare il superamento dei suoi limiti. E’ una zona molto spesso inesplorata che richiede coraggio, voglia di andare più in là. Spesso richiede che qualcuno ci inciti, ci sostenga, ci soccorra, se necessario. Questa area è fatta, più di altre, dell’aiuto degli altri. E qui che Aristofane interviene nuovamente: da soli non riusciamo ad uscire da noi stessi. Questo non significa che ognuno di noi può andare oltre perché l’oltre è la dimostrazione di cosa c’era prima. Ma se non si riconosce il proprio impossibile, come si può affrontare ciò che ci è possibile? La cultura greca ci ha insegnato, con tutto il suo bagaglio di metafore e racconti, che l’impossibile e il possibile esistono come due amanti che non possono distogliere il loro sguardo fisso. Ci ha anche fatto capire che le sfumature offrono sostanza. Per esempio, esiste una grande differenza tra la “relazione” e un “rapporto”. Ognuno di noi può avere dei “rapporti” nel mondo dei social. Cosa ben diversa creare “relazioni” con le persone. Di mezzo c’è sempre la comunicazione, il passaggio di pensieri attraverso le parole. Nella “relazione” le parole passano da una bocca all’altra, con una loro fisicità; nei “rapporti” la comunicazione passa tenendosi lontano. Non è un caso che l’atto sessuale venga definito con il precedere dalla parola “rapporto”. Qui, al mancare delle parole interviene il corpo per trasmettere le parole. Nel web la corporeità non esiste, quindi sono tutti “rapporti” che non possono diventare, in quello spazio, “relazioni”. Non si tratta disconoscerne il valore, ma riconoscerne il diverso valore.
L’intimità come resistenza
In un libro scritto da un filosofo spagnolo, “La resistenza intima. Saggio su una filosofia della prossimità”, spesso il pensiero va alla necessità di guardare le cose nella loro interezza e nella loro opposizione accettandone il loro ruolo. Josep Maria Esquirol si propone di trovare una via per affrontare il nichilismo che, prima di tutto significa decadenza nella versione di Nietzsche, attraverso il recupero della resistenza e delle sue virtù:
“Non si tratta di tradurre la resistenza in un esercizio di fortificazione dell’intimità; né significa che la cura di sé sia un movimento esclusivamente centripeto. L’esistenza è sempre, nel migliore dei casi, esistenza esposta, aperta e interpellata. Il sentiero a doppio senso intimità-esteriorità è cammino dell’esistenza. Interrompere il passo comporta uno svilimento, un impoverimento, una perdita. Pertanto, la questione non è interiorità o esteriorità, bensì quale tipo di passaggio, di relazione, esiste tra di esse. Una cosa è la fascinazione consumista, dove l’erotismo della merce attrae un’intimità predisposta alla dispersione, e un’altra ben diversa è la comunicazione con gli altri e la costruzione di un mondo. Ecco dunque che la resistenza intima non implica alcun tipo di chiusura. Sono le aperture e non le mura a legarci all’esteriorità. Si torna a casa perché, in precedenza, si è usciti.”
Resistenza significa prossimità, porta alla rivalutazione della quotidianità, al riconoscere il valore della semplicità, che non equivale a banalità. Tutto questo non ci conduce – per Esquirol – ad un mondo perfetto o felice. Ci offre solo la possibilità di vivere meglio.
L’ombra va oltre se stessi
Quella che propone non è neppure una resistenza ottimista: la dimensione umana rimane tanto profonda quanto contraddittoria. Non esiste luce, senza la sua ombra, sembrerebbe dirci. Bisogna capire quale sia determinante, verrebbe da commentare. Talvolta ciò che viene illuminato costituisce vera grandezza, talvolta la grandezza viene confusa come ombra. Ma anche nell’ombra esiste un suo perché che spesso possiede una sua energia creativa. Una poetessa “tribolata” come Alda Merini, a tale proposito, diceva: “Ecco l’unica cosa che mi piacerebbe veramente di tenere in pugno, il suono dell’ombra”. Son gli artisti nell’attraversamento della notte, nello sperimentare il non senso della vita, che trovano l’intuizione che porta tutti noi ad essere affascinati dalla loro opera. Il distillato della vita lo si trova nel silenzio e nella solitudine perché chi è capace di stare da solo può stare insieme agli altri: “chi va nel deserto non è un disertore”, ci ricorda Esquirol di aver trovato in una stanza in una casa fatiscente a Torino. Il resistente non ha l’ambizione di dominare o non vuole colonizzare perché prima di tutto non vuole perdere se stesso. Un atto discreto, ma non passivo, in cui la metafisica della casa trova una sua ragione.
Dalla casa alla comunità
Prima di fare, e diventare, comunità c’è bisogno di sperimentare l’accoglienza che solo la casa può fornire. La casa non è il luogo dell’isolamento. Diventa lo spazio per accogliere gli amici o gli sconosciuti, chi è veramente, e comunque, altro da noi. In questa pedagogia dell’essenziale, del ritorno a casa dopo il lungo viaggio, Esquirol fonda la sua visione. C’è chiaro passaggio ad una corporeità della vita. Una risposta netta all’attuale virtualità. La sua è una mistica che vuole recuperare il respiro del corpo. Vuole fornire consapevolezza ai gesti, ridurre le distrazioni, per poter sentire i rumori. C’è del sincretismo, anche se sono evidenti le radici cristiane del suo pensiero, nel suo ragionare, argomentare e proporre. Forse per questo nel suo paese ha avuto un grande successo e il libro sta per essere tradotto in molte lingue. Un libro che si avvicina molto al pensiero presente nella feconda attività letteraria di Enzo Bianchi, fondatore di quella comunità di Bose appoggiata sulle valli biellesi. Esquirol propone un esercizio facile da capire, difficile da eseguire. Come tutte le prestazioni, controintuitive, il suo esercizio richiede perseveranza. Il gesto che passa attraverso il corpo necessita sempre un grande allenamento, e tanta fatica. Quel grande regista, Elio Petri, che ha avuto nel 1971 la capacità – ancora inarrivabile – di raccontare il lavoro attraverso il suo film, “La classe operaia va in paradiso”, amava dire: “L’unica linea di resistenza è fare bene le cose”. Questo trasforma la resistenza in esistenza.
Titolo: La resistenza intima. Saggio su una filosofia della prossimità
Autore: Josep Maria Esquirol (Traduzione di Simone Cattaneo)
Editore: Vita e Pensiero
166 pp; 16 Euro