«O le regole europee cambiano o non ha senso la nostra permanenza nelle regole europee». Quando il leader della Lega Matteo Salvini ieri – intorno alle 10,20 – ha pronunciato queste parole in diretta Facebook, i mercati finanziari le hanno interpretate a torto o ragione in un modo ben preciso: le prossime elezioni saranno di fatto un referendum sulla permanenza dell’Italia nell’euro.
In realtà Salvini non l’ha detto esplicitamente. Luigi Di Maio proprio ieri ha smentito di voler abbandonare la moneta unica . E questa ipotesi non era mai stata evocata davvero né nella precedente campagna elettorale, né nel contratto del Governo. Ma siccome questo è il più grande incubo per chi investe nei titoli dello Stato e delle aziende italiane, è bastato ventilare anche indirettamente questa ipotesi per scatenare una nuova ondata di vendite su tutto ciò che è italiano. Come nei giorni scorsi era bastata l’ambiguità su questo tema per creare tensioni.
Sui titoli di Stato le vendite hanno così fatto salire i rendimenti dal 2,45% di venerdì al 2,68% per la scadenza decennale e dallo 0,47% allo 0,9% su quella biennale. Tanto che lo spread è lievitato a 235 punti base (massimo dal dicembre 2013), dai 204 di venerdì e dai 129 del 15 maggio, quando uscì la prima bozza di contratto tra Lega e 5 Stelle. Questo significa che oggi lo Stato italiano per reperire finanziamenti di durata decennale deve pagare 2,30 punti percentuali di interessi in più della Germania. Piazza Affari ha invece perso il 2,08%, annullando i rialzi da inizio anno. Fino a poco tempo fa era invece la Borsa migliore d’Europa nel 2018. E il motivo vero – oltre al contorno e al colore – è proprio questo: il fantasma del «no-euro».
Effetto «no-euro»
Se un investitore compra un titolo azionario oppure obbligazionario denominato in euro (valuta forte) non gradisce infatti che gli venga restituito in lire (valuta debole): perché solo per l’effetto cambio ci perderebbe. E nessun investitore ama perdere soldi. Neppure i risparmiatori italiani. Per questo anche solo la vaga ipotesi (che, ripetiamo, nessuno ha mai esplicitamente affermato) che un Paese possa uscire dall’euro mette in allarme gli investitori. Soprattutto quelli internazionali: perché questo cambia radicalmente il profilo di rischio dei titoli che hanno in portafoglio.
Fino ad oggi chi comprava un BTp chiedeva una remunerazione (dunque un rendimento) per il rischio-Italia. Cioè per il rischio di credito insito in un Paese con 2.300 miliardi di debito pubblico. Ma nessuno ha mai preso in considerazione un pericolo valutario. Ora questo rischio inizia invece , piano piano, ad essere prezzato. «La novità è che in Italia per la prima volta si manifesta una certa volontà di uscire dall’euro – osserva Andrea Delitala, head of investment advisory di Pictet Am -. Così gli investitori iniziano a incorporare nei titoli di Stato la perdita potenziale». Per questo i rendimenti salgono.
L’arma spuntata della Bce
La turbolenza è per fortuna mitigata da due fattori. Il primo è la Bce: nell’ambito del «quantitative easing» l’istituto guidato da Mario Draghi continua infatti a comprare titoli di Stato europei. Anche italiani. Attenzione però: il «Qe» non è una manovra ideata per salvare gli Stati. È semplicemente uno strumento di politica monetaria. La Bce non acquista insomma titoli di Stato per favorire un Paese o un altro, ma all’interno di regole stringenti e ben precise ideate proprio per evitare favoritismi. Li compra infatti in proporzione alla quota di capitale che ogni Paese vanta nella Bce stessa. Per quanto riguarda l’Italia, attualmente l’Eurotower acquista 3-4 miliardi di titoli al mese (ad aprile ne ha comprati per 3,9 miliardi). In totale ne ha rastrellati – tramite la Banca d’Italia – per un importo di 341 miliardi di euro, pari al 17,6% del totale titoli di Stato italiani. La Bce insomma è un importante acquirente di BTp, ma da sola non basta. Perché l’82% del debito è pur sempre in mano agli investitori privati.
Ma qui c’è il secondo fattore parzialmente rassicurante: negli ultimi anni gli italiani (soprattutto banche e assicurazioni) hanno aumentato la quota di titoli nazionali e attualmente ne detengono circa due terzi. Questo non mette i BTp al riparo, certo, dato che anche gli italiani possono venderli. Ma solitamente gli investitori domestici sono meno aggressivi di quelli esteri. Detto questo, un terzo circa del nostro debito è comunque in mani straniere. Il doppio di quanto detiene la Bce. Per questo il nostro debito resta esposto agli umori dei mercati. Piaccia o non piaccia, questa è la realtà dei fatti.
Incertezza futura
A questo punto tutti gli scenari sono aperti per i mercati. Bisogna vedere cosa accadrà al Governo Cottarelli, quando si terranno le nuove elezioni e con quali schieramenti. «Se il voto fosse fissato a settembre per i titoli di Stato italiani ci sarebbero due problemi – osserva Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte -. Il primo è che si tratta di una data ravvicinata, per cui gli investitori inizierebbero subito a posizionarsi. Il secondo è che le elezioni arriverebbero proprio quanto la Bce probabilmente inizierà a ridurre il Qe». Senza contare che anche la Spagna potrebbe tornare al voto. E senza contare che l’economia europea mostra segnali di rallentamento. Tutti motivi per suggerire agli investitori la prudenza. O la speculazione ribassista.