C’è il corpo sociale che soffre. C’è l’edificio politico-istituzionale che si sbriciola. E c’è la base della manifattura che non è stata né annichilita dalla Grande Crisi né minata dai nuovi impulsi protezionistici.
La costante storica del dualismo fra l’ambiente politico istituzionale italiano – in una tensione sempre e comunque persistente, fin dalla Prima Repubblica, non a caso fondata sul mito della ingovernabilità – e l’ambiente sociale e industriale – in costante equilibrio e disequilibrio fra sopravvivenza e sviluppo, ansia da vincoli interni e afflato da crescita sui mercati esteri, nella versione da Italia del Boom dell’imprenditore con la valigetta e nella versione moderna e globalizzata di suo figlio con il master in Inghilterra o in America – appare oggi in tutta la sua lacerante contraddizione.
Finora, l’industria ha retto. Partiamo dal tema del suo potenziale. Secondo i calcoli dell’economista Sergio De Nardis, la nostra manifattura – con un indice fissato a 1 nel 2000 – ha perso dal 2008 un quinto del suo potenziale. Dal secondo semestre del 2016 e per tutto il 2017, è però successo qualcosa: è risalita – in maniera non decisiva, ma discreta – sopra l’80% del suo potenziale e, nell’ultimo trimestre del 2017, è arrivata all’84 per cento. Siamo ancora lontani dal 94% della Francia e non vediamo nemmeno con il binocolo il 132% della Germania. Ma, in ogni caso, si tratta della interruzione di un processo di disfacimento dell’organismo tecno-industriale italiano che avrebbe potuto diventare irreversibile.
Dunque, l’anno di passaggio è il 2017. La fiducia delle imprese – per l’Istat – si è attestata a 108,7 punti, quasi quattro in più del 2016. E il grado di utilizzo degli impianti ha sfiorato il 79%, due punti in più rispetto al 2016, vicino al livello massimo fisiologico. Una “spremitura” delle fabbriche confermata nel primo trimestre del 2018, con un grado di utilizzo degli impianti pari al 77,9 per cento.
La forzatura dei ritmi produttivi – con un efficientamento degli stabilimenti che è una delle cifre essenziali del capitalismo produttivo italiano – è per esempio all’origine delle performance evidenziate dall’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, che ha costruito un indice di crescita e di redditività incluso fra zero (minimo) e cento (il massimo): l’occhialeria di Belluno è a 82,2, la gomma del Sebino-Bergamasco a 81,5, il prosecco di Conegliano-Valdobbiadene a 80,3, i salumi di Parma a 74,4 e la meccatronica dell’Alto Adige a 73 punti.
Nella congiunzione fra anima e macchine, sussiste l’eterna dialettica fra domanda interna e mercati internazionali, economia dei territori e catene globali del valore. E, in essa, si coagula e si sintetizza nel paradigma del 20-80-80: il 20% delle imprese italiane che sviluppa l’80% del valore aggiunto industriale e a cui si deve l’80% dell’export.
Nel pendolo fra esportazioni ed economie di territorio, la chiave rimangono quindi i mercati globali, per quanto resi meno efficienti e più vischiosi dagli impulsi neoprotezionistici.
Nel 2017, l’export ha raggiunto i 450 miliardi di euro, 200 miliardi dei quali sui mercati extra Ue. L’export complessivo è salito del 21% rispetto al 2008 e del 72% in confronto al 2000. Quello sui mercati extra continentali è aumentato rispettivamente del 34% e del 101 per cento. Nei primi tre mesi del 2018, la crescita tendenziale dell’export è stata del 3,4 per cento. Ed è stata spalmata su tutte le nostre specializzazioni produttive: beni durevoli +2,4%, beni non durevoli +4,1%, beni strumentali +1,5% e beni intermedi + 5 per cento. Nella nostra manifattura, la dinamicità maggiore è espressa dai settori che si collocano a metà della delicata fisiologia delle catene globali del valore e dai comparti che si trovano nelle parti finali di esse, quelle più nobili e a maggiore valore aggiunto, a contatto più stretto con i clienti finali. Il primo caso è rappresentato dalla farmaceutica (quasi 25 miliardi di euro di export nel 2017, +6,5% rispetto al 2016). Il secondo caso dalla moda (51 miliardi di euro, +1%) e dall’alimentare e dal vino (33 miliardi, quasi il 4%).
La tenuta del sistema economico italiano è affidata a una componente minoritaria come l’industria manifatturiera, che rappresenta la specializzazione produttiva strutturalmente calante – dagli anni Sessanta – in un Occidente sempre più terziarizzato e, dunque, sempre più debole e instabile dal punto di vista sociale, vista la forza sociale e il baricentro psicologico che, da sempre, nel Primo Mondo la fabbrica ha garantito (e garantisce) agli assetti sociali e alla mentalità collettiva.
Poche cose sono sicure. Una di questa è la ricaduta civile dell’impresa e del suo agire economico. Con tutte le sue contraddizioni. Con tutti i suoi limiti. Questo vale anche e soprattutto adesso, mentre il Paese è percorso da forti onde di instabilità.