Dicono tutti i Champions che «il costo del lavoro non è fondamentale: fondamentali sono le competenze». Nelle loro imprese è la norma: sono top performer anche per questo. Ognuno sa perfettamente qual è il proprio ruolo, nessuno deve per forza aspettare ordini da un superiore, che a sua volta attende un altro superiore, che magari è in attesa di un altro superiore ancora.
Si chiama «cultura aziendale», o senso d’appartenenza, e non è un concetto superato: è anzi uno dei segnali di confine tra chi ha successo e chi arranca, tra chi ha stipendi «oltre» i contratti nazionali e chi è inchiodato al minimo sindacale. I problemi – non solo per i Champions, di sicuro in particolare per loro – incominciano quando «crescere» diventa sinonimo di «assumere». Soprattutto nelle fasce professionali intermedie. Se per una piccola-media impresa è difficile trovare buoni ingegneri, o fisici, o manager,è peggio che complicato, è quasi impossibile individuare mani e occhi capaci di usare un tornio, una saldatrice, un telaio. Di super-laureati, in fondo, il mercato è pieno. Ma poi è l’abilità artigianale applicata anche ai processi industriali più complessi ciò da cui a volte parte l’innovazione e che, spesso, fa comunque la differenza tra il made in Italy e altre manifatture. Non a caso nei «Meet the Champions», organizzati da L’Economia e Italy Post (la quinta tappa oggi in queste pagine e venerdì a Padova), uno dei leit motiv è: «Per certe competenze non troviamo nemmeno gli apprendisti». Difatti. Confindustria ha calcolato che di «supertecnici» ne manchino almeno 280 mila. Loro, i piccoli-grandi campioni della nostra Top 500, semplicemente osservano che «qualcosa sta cambiando con l’alternanza scuola-lavoro». Troppo poco, però, e ancora troppo lentamente. Considerazione finale comune: «Per fortuna ci sono gli immigrati: troviamo tra loro disponibilità e competenze che qui non riusciamo a coprire». In un Paese normale, la «classe dirigente» ci rifletterebbe su.
*L’Economia, 14 maggio 2018