Aziende a caccia di profili tecnici introvabili. Può sembrare paradossale ma nell’Italia della disoccupazione giovanile al 16 per cento tra chi ha 25-34 anni le imprese non trovano persone da assumere. Un fenomeno preoccupante se si pensa che nei prossimi cinque anni avremo bisogno di oltre 150 mila supertecnici nei settori chiave della meccanica, della chimica, del tessile, dell’alimentare e dell’Ict. Colpa del mismatch (il gap fra le competenze dei lavoratori e quelle richieste dalle aziende) ma anche dei timidi investimenti fatti per sostenere chi forma i tecnici qualificati. Nello specifico i 95 ITS italiani, gli Istituti Tecnici Superiori che propongono percorsi formativi post diploma della durata, in media, di due anni. Si trovano su tutto il territorio nazionale ma la regione più attiva è la Lombardia che ne ha 20, seguita da Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Toscana a quota 7.
Quei 10 mila iscritti che non bastanoSostenuti da fondi pubblici e privati,gli ITS sono scuole ad alta specializzazione che formano esperti in meccatronica, mobilità sostenibile, design, turismo e benessere. Secondo l’ultimo monitoraggio del Miur, l’82,5 per cento dei diplomati ha trovato lavoro entro un anno. Merito della formazione «on the job» e della collaborazione delle aziende alla didattica.
Gli ITS sono infatti Fondazioni partecipative che coinvolgono imprese, enti pubblici, centri di ricerca e associazioni di categoria. Posto che la sinergia sembra funzionare, il primo problema è numerico. Attualmente abbiamo 10.447 iscritti nei 95 ITS italiani mentre in Germania le Fachhochschulen (analoghi istituti di formazione terziaria) , superano il milione di studenti. Il rapporto è di 1 a 100.
Regione che vai aziende e ITS che troviLa seconda questione è legata al fatto che gli ITS non potrebbero formare così bene i ragazzi se non fosse per la collaborazione con le aziende, che possono scegliere se mettere a disposizione della Fondazione risorse economiche, spazi o docenti/tutor. Va da sé che saranno avvantaggiati gli ITS nati in aree dove il mondo privato è particolarmente attivo. Infatti per loro natura gli Istituti sono legati alle esigenze del territorio e delle sue imprese, attirate dall’idea di avere tecnici a «portata di assunzione». Un esempio su tutti è l’ITS Tecnologie Industrie Creative, che risponde al fabbisogno del comparto ceramico nel modenese. Abbiamo quindi 95 «ecosistemi» diversi, ma la buona notizia è che le aziende stanno cominciando ad investire sul futuro: se nel 2015 erano 1000 quelle coinvolte, oggi sono 1449. Nella maggior parte dei casi (40%) si tratta di piccole e medie imprese.
Il costo della formazioneLa premessa è doverosa: gli ITS non sono scuole pubbliche, ma agli studenti selezionati (20-25 per classe) non viene chiesto nulla se non — in rari casi — un contributo d’iscrizione. Utile quindi chiedersi quanto costi alle Fondazioni formare i super tecnici. Per legge la spesa massima prevista per un percorso è 300 mila euro. Significa che il costo massimo di un ragazzo, considerate le classi da 20 studenti, è 7500 euro l’anno. Gli ITS però mediamente si attestano intorno ai 6 mila tra didattica e materiali. A pesare sul bilancio le spese per la docenza: oltre la metà dei professionisti chiamati in cattedra viene dal mondo delle imprese. Sono ingegneri, esperti di additive manufacturing, imprenditori e ricercatori. Tradotto: ingaggiarli non è economico. In genere il tariffario è 60 euro l’ora, circa 120 mila euro per garantire le 2000 ore di corso. C’è poi la voce laboratori. Allestirli nel settore automotive o della stampa 3D può costare oltre 50 mila euro.
Fondi pubblici e privatiMa come vengono finanziati questi corsi di alto livello? Le risorse arrivano dal Miur, dalle Regioni, dall’Europa e dai privati. La legge di bilancio, va detto, ha previsto un lieve aumento dei fondi pubblici: 10 milioni per il 2018, 20 per il 2019 e 35 per il 2020. Il meccanismo di finanziamento annuale è semplice. Attraverso un fondo ad hoc il Ministero dell’Istruzione eroga il 70 per cento del contributo sulla base del numero dei ragazzi ammessi al secondo anno (o in caso terzo anno) e del numero di ammessi all’esame finale. Il restante 30 per cento va invece alle Fondazioni che ottengono i migliori risultati. Ogni regione co-finanzia poi a sua discrezione i percorsi sul territorio attingendo al Fondo sociale Europeo. E le aziende? Per i privati che diventano soci della Fondazione la quota si aggira intorno ai 10 mila euro, ma ogni ITS ha un suo statuto. Bisogna poi tener conto delle disposizioni regionali. In Lombardia si è stabilito che il 75 per cento del costo è finanziato con risorse pubbliche e almeno il 25 per cento con risorse private. Quindi se il costo massimo di un percorso ITS è fissato in 280 mila euro — come sostiene la Regione — significa che le aziende coprono 70 mila euro.
Dove sono finiti i diplomati tecnici italiani?Nonostante l’impegno delle aziende, lo scarto numerico con la Germania è tale da indurre una riflessione su dove siano finiti i diplomati tecnici italiani, ovvero i principali profili che si iscrivono agli ITS. Una prima risposta ce la forniscono le statistiche sulle iscrizioni scolastiche.
Nell’ultimo decennio le scuole superiori che formano i ragionieri, i geometri o i periti hanno perso quasi 120 mila studenti. In parallelo sono aumentati i liceali: +40 mila. La questione quindi è anche culturale: la scuola si è in qualche misura «liceizzata» allontanandosi dalle esigenze pratiche del mondo privato.
Secondo la Fondazione Agnelli più della metà dei diplomati tecnici, a due anni dal diploma si accontenta di un lavoro qualsiasi. Risultato? Abbiamo migliaia di ragazzi che studiano da tecnici per non fare i tecnici. E intanto quel milione di studenti tedeschi resta lì, a ricordarci che è ora di accelerare il passo.