Negli ultimi dieci anni gli investimenti esteri sul mondo dello shipping italiano, tra acquisizioni, fusioni e accordi di partnership, sono arrivati complessivamente a sfiorare i 3,5 miliardi e hanno interessato 59 aziende italiane del settore portuale, marittimo e logistico. E il trend sembra proseguire, perché i rumors di mercato suggeriscono che ci sono fondi e operatori internazionali del settore interessati ad altre operazioni in Italia. Mentre si manifesta un crescente disimpegno delle banche dal comparto. È quanto emerso nel corso dell’assemblea di Federagenti (l’associazione che raggruppa gli agenti marittimi italiani), tenutasi ieri a Porto Cervo.
Il dato sugli investimenti scaturisce da un’analisi del presidente della federazione, Gian Enzo Duci, il quale ha sottolineato come nell’ultimo decennio, alcuni fra i maggiori brand dello shipping, della portualità, delle attività spedizionieristiche e della logistica italiana, siano riusciti ad attrarre investitori internazionali che hanno radicato in Italia le loro attività producendo valore aggiunto nel Paese. «È il risultato stesso di questi interventi – ha sottolineato Duci – a dissipare il sospetto che si tratti solo di una massiccia operazione di colonizzazione: nei tre anni successivi all’intervento di investitori esteri, l’Ebitda dei gruppi oggetto di queste operazioni, e di cui si sono potuti reperire i dati, ha registrato un incremento medio del 70% nei primi tre anni, per poi attestarsi, negli anni a seguire, su tassi di crescita annui del 5%». Inoltre, è stato evidenziato, il Roi (return on investment) delle compagnie beneficiarie degli investimenti è aumentato in media del 15,99% nell’arco di tre anni dalla transazione.
Per il futuro, come si è accennato, la tendenza all’investimento in Italia nello shipping, da parte di realtà estere, sembra destinato a continuare. Ad esempio il fondo Pillarstone, che ha già investito su Premuda, risanandola, e su Rdb Armatori (quest’ultima invece è arrivata comunque al fallimento), secondo indiscrezioni di mercato potrebbe valutare altri interventi in Italia. Vi sono poi interessi della Global ports holdings di Istanbul per il progetto di sviluppo dei terminal crociere e ro-ro a Palermo e l’attenzione della Cina per i porti liguri di Savona e Genova, nel Tirreno, e per Trieste, in Adriatico.
D’altro canto, l’analisi presentata da Duci ha anche evidenziato come, in particolare nelle attività armatoriali, la crisi si sia fatta sentire con forza, rendendo indispensabile, per più di 30 gruppi, il ricorso a misure straordinarie di rinegoziazione del debito. In taluni casi, peraltro, il tracollo finanziario è sfociato nel fallimento. Anche nel mondo delle agenzie marittime, ha ricordato Duci, l’effetto concentrazione a livello mondiale delle compagnie del settore container (dove nove shipping company, raggruppate in tre alleanze, si spartiscono più dell’80% del mercato), ha causato un cambio d’identità delle aziende, che sono diventate o di proprietà diretta delle compagnie o joint venture fra i gruppi armatoriali e agenti marittimi italiani, in precedenza autonomi.
Nel corso dell’assemblea si è parlato anche della possibilità di creare un ministero del Mare, come suggerito, nelle scorse settimane, dal leader di Confindustria, Vincenzo Boccia. Una posizione sposata anche dal presidente dell’Autorità di sistema portuale della Sicilia occidentale, Pasqualino Monti. Su una linea analoga si pone anche Duci, il quale auspica, che il nuovo Governo, una volta formato, favorisca «l’istituzione, presso la presidenza del Consiglio, di un sottosegretariato che progressivamente riaccorpi tutte le competenze relative al settore marittimo oggi disperse in almeno sette ministeri». Diversa l’opinione del presidente di Confetra, Nereo Marcucci, secondo il quale «il ministero del Mare non è la risposta alle esigenze dei porti e del sistema logistico nazionale, meglio rafforzare il ruolo di pianificazione trasversale del Mit».