Primavera del 1999: nel suo ufficio all’ultimo piano del quartier generale della Safilo affacciato su un rettifilo dove le auto corrono come proiettili verso il casello di Padova Est, Vittorio Tabacchi, occhi azzurri di ghiaccio e giacca Brioni con righe in tinta, prova a tratteggiare il futuro del mercato dell’occhialeria. Qualche settimana prima, il suo principale competitor agordino (ma cromosomi di Barletta), Leonardo del Vecchio, ha staccato un assegno di 640 milioni di dollari per acquisire il marchio-mito americano che ha segnato intere generazione di mezzo mondo: Ray Ban. Tabacchi, secondogenito di Guglielmo, che nel 1934, di ritorno dagli States, dove nacque, fondò la sua fabbrica di occhiali, tamburella le dita sulla scrivania e con una cortesia gelida che possiedono solo certi aristocratici dolomitici sciorina il suo verdetto con una metafora venatoria: «Una volta corre il cane, un’altra volta la lepre». Il cane Leonardo del Vecchio già sul finire del millennio sembra deciso a volersi staccare dal gruppo nella sua corsa solitaria verso il tetto del mondo. La forza di Leonardo è essere orfano di padre, di cui porta il nome, un parricidio compiuto dalla sorte al suo posto. La partita fin dai tempi dei Martinitt, il collegio milanese che ospitava i ragazzi senza uno o entrambi i genitori, è tra lui e il mondo. Nessuna investitura paterna da soddisfare, nessun conflitto con i tre fratelli maggiori che remano solitari e disperati come Leonardo verso il loro sogno. L’infanzia è dura, quasi dickensiana, un po’ David Copperfield, un po’ Oliver Twist; sei anni nelle camerate gelide di un orfanotrofio marchiano per il resto della vita. Alla mamma non può chiedere molto, e allora la implora di comprargli una bici: «Ti prego, mi aiuterà a far soldi». Con la mantella irrigidita dalla brina Leonardo va incontro al suo destino.
A Vittorio Tabacchi la sorte riserva le attenzioni di un padre di successo e una casa patrizia nel cuore di Padova. Il fratello maggiore, Giuliano, padre di Guglielmo (la loro società immobiliare post uscita da Safilo si chiamerà 2G) rimanda all’investitura paterna di cui è portatore come primogenito. Poi c’è Ermenegildo, Dino per gli amici, il piccolo, per 15 anni patron della catena di 400 negozi Salmoiraghi & Viganò (nel 2017 rilevata in blocco dal solito Del Vecchio). Dino con i figli Edoardo ed Emanuele Maria condivide la passione per le auto e le barche a vela, come dimostrerà qualche anno più tardi l’ingresso con il 49,9% nel cantiere viareggino di Fabio Perini. Il punto dolens nella storia dei Tabacchi è freudianamente nella relazione tra padri e figli. Dostoevskij al posto di Dickens. Tre fratelli ma soprattutto tre nipoti maschi (Guglielmo, Massimiliano ed Edoardo). In grande, sembra la replica della lotta tra Vittorio e Piergiorgio Coin, i due fratelli che alla fine di un epico duello nel 2005 cedettero il gruppo veneziano della grande distribuzione fondato dal nonno, venditore ambulante a Pianiga. O quella più cinematografica dei Bisazza di Vicenza: Pino, che fu anche presidente degli Industriali vicentini come Giuliano lo fu di Padova, si autoinveste del ruolo di leader naturale. Gli altri due fratelli sembrano gregari fino a quando, durante un cda di routine, si coalizzano e presentano a Pino il cartellino rosso: «Ti liquidiamo, l’azienda è nostra». Alla base c’erano profonde divergenze sul futuro dei figli. Chi farà l’amministratore delegato? Chi ha le competenze e l’attitudine per entrare nella stanza dei bottoni? Mio figlio, tuo figlio o nessuno dei due?
Non si mettono d’accordo i Bisazza e non si mettono d’accordo i Tabacchi. Negli stessi mesi in cui Del Vecchio tratta con gli americani, i Tabacchi discutono sulle strategie del gruppo. L’accordo è consensuale. Giuliano e Dino escono in cambio di quasi il doppio della cifra che Del Vecchio è pronto a scucire per Ray Ban. La scelta di Vittorio non è azzardata. Il 1999 è un anno di vacche grassissime, ma si tratta di uno degli ultimi, pantagruelici banchetti. Le casse delle aziende sono gonfie di miliardi ma il debutto dell’euro e i venti di crisi si annusano nell’aria. Gli imprenditori veneti, che esportano e vedono più lontano degli altri, urlano il loro dissenso ai governanti romani: «Il sistema Italia perde terreno rispetto ai Paesi concorrenti», si sgolano. Nessuno gli crede. Il Pds minimizza: è il malessere del benessere. Un modo elegante per dire che gli industriali veneti, dopo tutto, evadono le tasse e votano Lega. Dei marziani, insomma. Francesco Rutelli, anni dopo, si scuserà a nome di tutto il Centro-sinistra. Troppo tardi. Safilo sotto il controllo di Vittorio tallona il cane. Dal 2002 al 2006 corre anche la lepre. Quotazione in Borsa e nuovo management con la stella di Roberto Vedovotto, ex Morgan Stanley, che con la stessa nonchalance incassa ricche stock option e contratti con le grandi griffe come Gucci. Lui, su quel rettifilo sotto la Safilo, si prende la soddisfazione di sfrecciare con una Ferrari California da 174 mila euro (sull’incasso delle sue stock option indagheranno anche le Fiamme gialle).
Safilo va, ma il peso di un debito enorme per la liquidazione dei due fratelli Giuliano e Dino la zavorra. Poi c’è la schiacciante prevalenza delle griffe sui marchi propri. Safilo non possiede marchi di grido, tranne Carrera e Polaroid, e nella prima metà del 2000 Armani abbandona l’azienda padovana per la Luxottica di Del Vecchio. Eventi che piano piano preparano la rivoluzione al vertice. Nel 2006 Vittorio può finalmente attuare il piano che rimugina da anni. Via Vedovotto, il timone va a Claudio Gottardi affiancato dal figlio Massimiliano, un ragazzo allevato secondo i sacri crismi dei predestinati e un curriculum da primo della classe: laurea in ingegneria meccanica a Padova, lunghe esperienze di lavoro negli States, appassionato di diving, paracadutismo e pilota d’aereo, tre lingue parlate fluentemente.
Non funziona. Nel 2009 torna Vedovotto. Ma ormai la matassa si è ingarbugliata. Urge ricapitalizzazione. Il fondo olandese Hal sale dal 2 al 37%, i Tabacchi scendono dal 40 al 10%. Di lì al 2013 gli olandesi liquideranno l’amministratore delegato e affideranno la guida dell’azienda quotata alla manager elvetica Luisa Delgado. Ormai i Tabacchi sono con le spalle al muro. Vittorio mastica amaro e durante un cda passato alla storia aziendale accusa la Delgado e gli olandesi di non aver imposto a Vedovotto di firmare un contratto di non concorrenza. Il manager di Bassano del Grappa si è trasferito come ceo eyewear della Kering, il gruppo di monsieur Pinault che possiede marchi come Gucci, Balenciaga, Bottega Veneta e persino Brioni, le giacche amate da Vittorio. La concorrenza straniera entra in Italia sfondando la porta di casa. Kering elegge il suo quartier generale dell’occhialeria nella ciquecentesca Villa Zaguri di Altichiero, un tiro di schioppo da Padova. Un avvertimento e una prova di forza allo stesso tempo. I marchi li possiedono Lvmh e Pinault.
E non a caso Gucci con Vedovotto alla guida retrocede l’accordo con Safilo da licenza ad accordo di fornitura. Il messaggio è chiaro: ora le carte le diamo noi. In un’altra primavera meno fausta, quella del 2018, la Delgado si arrende e lascia diplomaticamente l’azienda padovana per “motivi personali”. Parecchi mesi prima, ma in gran segreto, la holding Only 3T con la quale Vittorio, Massimiliano e Samantha, l’altra figlia di Vittorio, controllava il 7,7% di Safilo, va in liquidazione. Sono passati esattamente 19 anni da quel 1999. Ha vinto il cane, affrancato dai demoni dostoevskijani. E sostenitore inflessibile della separazione chirurgica tra proprietà e gestione dell’azienda. Al figlio Claudio, omologo di Massimiliano, Del Vecchio ha regalato il marchio americano di abbigliamento Brooks Brothers e gli avrebbe comprato pure l’Empire State building – in linea con la sua passione per l’immobiliare – purché rimanesse lontano dalla stanza dei bottoni. È la dura legge dei padri senza padre. Wolfgang Amadeus Mozart diceva: «Dopo Dio c’è sempre un papà». E i figli? Forse per questo i proverbi yiddish preparano i bambini a difendersi dal tradimento dei padri.