Avere una storia da vendere (storyselling) è rimasto fondamentale in Borsa. Jean-Pierre Mustier, ceo di UniCredit, si è dimostrato da subito fedele discepolo di questa scuola di pensiero. In meno di due anni l’ex ufficiale della Legione straniera che vive a Londra, ama Parigi e conosce poco l’Italia ha cambiato il volto della banca. E il mercato ha premiato la sua leadership: anche se qualche pignolo fa notare che il raddoppio odierno della quotazione valuta per gran parte la ricapitalizzazione-monstre di un anno fa. Ma lo spettacolare fund-raising da 13 miliardi ha avuto pochissimi precedenti di successo.
Nelle prime settimane del 2017 Mustier ha bussato a tutti gli indirizzi giusti della City e di Wall Street, armato solo di una borsa piena delle slides del piano Transform 2019. Il libro-soci di UniCredit è eloquente sui nomi che il ceo ha convinto. Con tutti gli azionisti, in ogni caso, Mustier è in parola: prima o poi deve deliver. Deve «riconsegnare» una banca con una quotazione in Borsa decente e promettente (Goldman Sachs ha alzato a 24,5 euro il target price; JPMorgan si è fermata a 23), naturalmente basata su una cedola sostenibile. L’alternativa è inventarsi un’altra storia. Anzi: cominciare da subito a scriverla, sul terreno del merger and acquisitions. La domanda in ogni caso resta: cosa farà Mustier 2.0 nei prossimi 12 mesi?
L’inizioIl manager francese è diventato amministratore delegato nell’estate del 2016 quando Federico Ghizzoni lasciò la banca sulla spinta di un mercato che voleva un cambio del management. I coefficienti patrimoniali si erano pericolosamente abbassati, il piano di cessioni andava a rilento come pure il taglio dei costi. La scelta maturò dopo un lungo e acceso confronto interno ed esterno a UniCredit: anche la politica non mancò di intervenire. Un ruolo determinante spettò all’ex presidente Giuseppe Vita con l’appoggio di Egon Zehnder. Fu la società di head-hunting a scartare i nomi di tutti i manager italiani in corsa. In particolare furono esclusi Alberto Nagel, amministratore di Mediobanca, Carlo Cimbri, numero uno di Unipol e Marco Morelli, sponsorizzato da Caltagirone. La stretta sul nome di Mustier avvenne quando il comitato ristretto guidato da Vita (di cui facevano parte i vice presidenti Luca Montezemolo e Vincenzo Calandra, oltre a Clara Streit) fu allargato agli altri componenti del comitato nomine (il vice presidente Fabrizio Palenzona, Alessandro Caltagirone ed Elena Zambon). I due organismi si trovarono sul tavolo due nomi: uno sconosciuto manager americano di Hsbc e Mustier. Scelsero ovviamente il secondo.
Il banchiere, nato a Chamalières, era una vecchia conoscenza di Piazza Gae Aulenti. Nel 2011 era stato chiamato a guidare la divisione Cib, quella dedicata alle grandi imprese. Il suo curriculum parlava francese o meglio Société Générale, banca dove aveva iniziato la sua carriera ed era diventato responsabile dell’investment banking. Qui la sua corsa era stata frenata da due episodi: lo scandalo del trader Jerome Kerviel e una multa recapitatagli dalla Cob (la Consob transalpina) per un caso di insider trading. Nell’estate del 2009 Mustier, noto nella City come il mago della finanza strutturata, preferì lasciare l’istituto francese. Dopo un breve periodo di inattività, diventò consulente di Tikehau Capital, società fondata da ex manager Goldman Sachs e Merrill Lynch, specializzata nella gestione del debito ad alto rischio. Un ruolo che gli stava stretto e quindi accettò al volo l’offerta di prendere il posto di Sergio Ermotti come responsabile del corporate-investment banking UniCredit. Il suo nuovo lavoro non durò però molto. Vari contrasti con il management lo spinsero a rientrare in Francia questa volta alla guida del Tikehau Capital che nel frattempo era diventato un’importante pedina nello scacchiere finanziario anglo-francese. Poi la caduta di Ghizzoni, l’affondo di Vita e il ritorno a Milano come amministratore delegato. Una volta avuto il bastone del comando, l’ex ufficiale della Legione straniera non ha perso tempo e ha disegnato la nuova strategia dell’istituto.
Public companyUna narrazione semplice ma efficace: rafforzamento del patrimonio, trasformazione in public company, consolidamento della leadership personale, rinnovo del consiglio e della struttura organizzativa. Il capitolo cessioni si è aperto con la vendita del polacco Pekao a Pzu e Pfri per 3 miliardi. Poi è stata la volta di Pioneer. Bloccata la trattativa con il Santander, la società dell’asset management è finita ai francesi di Amundi, società del Credit Agricole, per 3,5 miliardi. La ciliegina sulla torta è stato l’aumento di capitale, che tuttavia non ha fermato la pulizia del bilancio e il rafforzamento strutturale del patrimonio. Nei mesi successivi all’aumento è stato definito un accordo con Pimco e Fortress per la cessione di un portafoglio di sofferenze di 17 miliardi a un costo medio del 13%. Prezzo ritenuto congruo dalla società, anche se più di un analista ha storto la bocca. Così, ad ogni modo, Unicredit ha cambiato volto ed è diventata una vera public company.
La squadraNon restava che rinnovare e snellire il consiglio. L’ex direttore generale di Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni è diventato presidente mentre Francesco Bisoni, professionista emiliano diviso fra via Nazionale e Fondazioni, è stato scelto come unico vice presidente. Hanno lasciato il cda Vita, Montezemolo, Palenzona, Streit, l’economista Lucrezia Reichlin e anche Anthony Wyand, amico britannico di Mustier, di casa nelle stanze del potere parigino. Si è d’altra parte consolidata la rappresentativa tedesca-assicurativa: con il nome di Sergio Balbinot, una vita trascorsa in Generali prima di approdare ad Allianz. Mustier può ora contare su un consiglio meno pesante ma certamente più compatto quando si dovranno prendere decisioni. Resta da capire come si comporterà Saccomanni che in queste settimane sta cominciando a conoscere punti di forza e di debolezza dell’istituto. È chiaro che il dna istituzionale del neo presidente lo rende poco incline a comportamenti sbrigativi o a scelte improvvise.
L’organizzazione interna sembra, invece, ispirarsi a una gerarchia militare: tanto spirito di corpo, poche critiche e rigorosa disciplina. Accanto a Mustier lavora un gruppo ristretto di dirigenti. Il direttore generale è Franco Papa. In passato si era parlato di dissapori con Mustier che ora sembrano rientrati ma è evidente che le diverse visioni restano e alimentano fantasie sulla nomina di un nuovo direttore: italiano o non italiano? Proveniente dall’interno o chiamato dall’esterno? Oltre a Papa, gli uomini forti sono comunque quattro: Paolo Cornetta Tj Lim, Olivier Khayat e Ranieri De Marchis. Il primo è il numero uno delle risorse, area fondamentale per una banca. Al malese Lim fa capo la guida strategica e la gestione del risk management. Khayat, condivide con Gianfranco Bisagni, la responsabilità della divisione Cib. Infine De Marchis che, insieme a Francesco Giordano, è chief operating officer. Non va dimenticata Louise Tingström che ha il compito di pianificare la comunicazione di Unicredit. Mustier si fida ciecamente di lei a tal punto che partecipa, pur essendo una consulente, anche alle riunioni più importanti. Con questa formazione Mustier 2.0 si prepara a dipanare il secondo capitolo di UniCredit.
Il punto d’arrivo annunciato nel luglio 2016 era: diventare leader paneuropeo. E ufficialmente lo resta, anche se pochi credono che possa essere conseguito per linee interne. Tramontato il modello McKinsey anni 90 (sviluppo attraverso sportelli e clientela), la svolta digitale sta disintermediando il settore e cambiando lo stesso modo di fare banca. Ora i ricavi vengono prodotti da quattro aree: credito al consumo, raccolta-gestione risparmio, export finance e banca d’affari. La discriminante è avere fabbriche prodotti o essere leader in qualche area geografica. Sotto questo profilo Unicredit presenta poche certezze e varie incognite. Anzi, la politica di dismissioni ha salvato la banca ma ha consolidato i problemi. Sostenere poi la politica di dividendi con ricavi in calo vuol dire ridurre gli accantonamenti. Una scelta che premia gli investitori ma rischia di risvegliare vecchie problematiche. Per questo la strada più diretta sembra sempre l’aggregazione, favorita dal fatto che UniCredit è una public company; ipotesi un po’ frenata dalla quotazione non ancora soddisfacente del titolo rispetto ai peer europei. In passato si è molto parlato di Société Generale, e non solo per la provenienza di Mustier e per le partnership in atto con UniCredit. Sul tavolo rimane l’opzione Commerzbank che la Germania vuole ri-privatizzare attraverso un’aggregazione: UniCredit vanta anche passaporto tedesco ma il ripiegamento nazionalistico di molti Paesi Ue sembra giocare a favore di Deutsche Bank. Una strada percorribile potrebbe essere la fusione con Mediobanca, specialmente dopo che il caso Bollorè ha riacceso l’attenzione sul patto di sindacato che controlla l’istituto di piazzetta Cuccia. Ma Mediobanca, di cui Unicredit possiede 8,6%, vuol dire Generali e questa è una partita troppo italiana e ingarbugliata per un banchiere francese.