Alla mezzanotte di Washington — le sei di stamattina in Italia — scade l’ultimatum di Donald Trump all’Europa. Il presidente degli Stati Uniti chiede che i «magnifici Paesi dell’Unione Europea» facciano cadere le loro «orribili barriere e tariffe ai prodotti americani». In alternativa non dovranno fare i conti solo con dazi al 25% sull’acciaio per quasi mezzo miliardi di dollari che vendono ogni anno negli Usa, o con altri dazi al 10% sull’alluminio. In un tweet piaciuto a 100 mila follower di qualche settimana fa, Trump aveva aggiunto un’altra minaccia: «Se no — scrive — tassiamo le auto, etc. FAIR!»
Ma è «fair» sul serio, insomma è leale? Qualunque cosa accada stamani — che l’Europa strappi un rinvio o si ritrovi intrappolata in una spirale di ritorsioni — distinguere torti e ragioni, vincenti e perdenti non è mai stato così difficile. Per capirlo basta scomporre il valore di uno smartphone, come ha fatto il Fondo monetario internazionale: gli interessi dei grandi blocchi in Asia, in Nord America e nell’Unione Europea sono connessi in maniera inestricabile. L’anno scorso l’economia dello smartphone da sola ha contribuito per 3.600 miliardi di dollari al reddito mondiale, il 4,5% del Pil del pianeta. Ma capire di chi sia davvero quel valore è impossibile. Il più grande produttore, Apple Inc., è californiano e in un anno è riuscito a far crescere il prezzo medio da 618 a 798 dollari per pezzo venduto. Ma la Cina quei pezzi li ha materialmente assemblati e il solo spedirli nel mondo ha fatto crescere il suo export del 5,7%. Quanto all’Europa, per risparmiare sul Fisco Apple ha piazzato in Irlanda la proprietà intellettuale della sua tecnologia ed essa da sola ha accelerato di un quarto l’espansione dell’isola nel 2017. In un mondo di tecnologie complesse, il commercio non è più un gioco a somma zero in cui ogni centimetro guadagnato sia sempre sottratto ad altri. Non è però neppure un sistema di generosità gratuite e per questo oggi la Germania, l’Italia e in genere l’area euro sono vulnerabili alle pressioni di Trump. Per quanto siano scandalizzati dai metodi del presidente, sanno che la sua irritazione non è del tutto infondata.
C’è un problema generale, perché l’area euro è emersa dalla doppia recessione solo grazie a una metamorfosi che di fatto sta danneggiando il resto del mondo. Come mostra il grafico in pagina, l’espansione della zona euro degli ultimi anni coincide con un rapido aumento del surplus nel totale degli scambi con il resto del mondo (al ritmo di fine 2017, per oltre 500 miliardi di euro l’anno). Significa che un’area pari quasi a un quinto dell’economia mondiale vive sulla domanda degli altri, comprimendo la propria. Qui l’America è il grande cliente e consumatore: il suo deficit sul resto del mondo è uguale e contrario al surplus della zona euro. Succede anche perché quasi tutti i Paesi dell’area, dal Portogallo all’Italia, sono usciti dalla recessione copiando pagine da un manuale molto tedesco dove i consumi interni vengono soppressi e l’export invece esaltato, facendo leva sulla voglia di spendere del resto del mondo. Anche senza l’ira di Trump, un ingranaggio del genere non potrebbe durare per sempre: questi attivi commerciali sempre più alti, il triplo di quelli cinesi, comportano una forte domanda di euro dal mondo e dunque una pressione al rialzo del tasso di cambio che finisce a sua volta per danneggiare proprio l’export di Francia o Italia.
L’Europa dunque ha molto da perdere dall’ira di Trump e questo la rende debole nel trattare con lui. Non a caso le ritorsioni minacciate finora sul bourbon o l’Harley Davison sono minuscole, per vendite da meno di 3 miliardi l’anno. A maggior ragione dato che la Ue oggi è più difensiva, o protezionista, degli Usa. Il settore auto per esempio vale 165 miliardi di export tedesco e 17 di quello italiano, ma Thomas Strobel di Unicredit stima che i dazi dell’Europa sulle auto americane oggi restino in media del 7,5% più alti dei corrispondenti dazi americani. Se Bruxelles allineasse le proprie tariffe a quelle di Washington, dovrebbe fare altrettanto anche per il resto del mondo: l’export di auto di lusso tedesche verso New York sarebbe salvo, ma le utilitarie asiatiche metterebbero in crisi le produzioni di Francia, Italia o Slovacchia. In alternativa rischiare che Trump alzi i dazi sull’auto europea porterebbe via sei miliardi all’export tedesco (e molto anche agli scambi infragruppo di Fca). Per questo l’Europa di fronte a Trump risponde lenta, frenata da una Germania che ha tanti favori da chiedere ai partner. Con l’Italia sulla scia di Berlino.