Quello di mercoledì prossimo a Bruxelles è un appuntamento da mille miliardi di euro e l’Italia, ancora senza governo eletto, dovrà fare i conti con una nuova realtà: ogni Paese in ritardo nelle riforme del mondo del lavoro, quelle che vengono periodicamente raccomandate dall’Unione europea, rischia di perdere parte della propria quota di questa massa di risorse.
Tra tre giorni la Commissione Ue deve approvare e presentare ai governi(quello di Londra escluso) la propria proposta sul bilancio dell’Unione europea dal 2021 al 2027. Sono in gioco le risorse che la Ue a 27 Paesi riceve sia dagli Stati che da entrate proprie, e redistribuirà in varie direzioni: alle aree arretrate, ai territori in crisi industriale, all’agricoltura (ma sempre di meno), a programmi per studenti come Erasmus di ricerca avanzata come Horizon 2020 (sempre di più in questi due casi), a iniziative di politica estera o per rafforzare i fondi sulle migrazioni, le richieste di asilo o la gestione dei confini esterni dell’Unione europea.
Questa proposta in arrivo è solo la mossa di apertura di una partita a scacchi che durerà due anni, ma resta determinante perché crea fatti sul terreno impossibili da ignorare. Poiché verrà indicato un bilancio europeo tra l’1,13% e l’1,18% del reddito lordo dell’Unione a 27 Stati, in gioco ci sono circa 1.020 miliardi di euro in sette anni; fra questi potrebbero esserne diretti verso l’Italia circa 120. Spetta a un tedesco, il commissario Ue al Bilancio Günther Oettinger, mettere sul tavolo l’intero programma e questa volta esso conterrà una novità fra le altre: una delle linee di bilancio più importanti, il Fondo sociale europeo, viene legato a doppio filo alle «raccomandazioni» che ogni anno Bruxelles manda ai vari Paesi. In altri termini, l’Italia rischia di incontrare problemi nell’accesso a quelle risorse se continua a resistere a molte delle riforme suggerite dalla Commissione Ue e dagli altri governi dell’euro.
Che sia così, lo mostra chiaramente la bozza annotata sul Fse sulla quale Oettinger ha lavorato in queste settimane (il 18 aprile ne ha parlato con alcuni degli altri commissari Ue: la ceca Vera Jourová, la svedese Cecilia Malmström e il greco Dimitris Avramopoulos). Il testo indica che il Fondo sociale europeo assolverà alla propria missione «sostenendo gli Stati membri nel perseguire le priorità delle linee guida sull’occupazione e le raccomandazioni del Consiglio Ecofin» che da Bruxelles vengono inviate ai vari Paesi ogni anno a primavera. Il linguaggio è burocratico ma sul senso politico è impossibile avere dubbi. Significa che quei soldi (circa 80 miliardi di euro in tutto, dei quali una decina per l’Italia) andrebbero richiesti e spesi come accompagnamento al tipo di riforme del mercato del lavoro che l’Unione europea raccomanda. Il problema è che l’Italia ignora da anni quelle raccomandazioni: in particolare quelle che suggeriscono di spostare il grosso dei negoziati sui contratti dal livello centralizzato nazionale alle aziende, e le proposte di politiche più decise per aumentare l’occupazione fra giovani e donne.
In Italia il Fondo sociale europeo è stato usato piuttosto per attenuare crisi industriali anche in regioni ricche come Lombardia, Veneto o Piemonte. Ma condizionare di fatto l’accesso alle risorse europee alle riforme rivela il livello di tensione politica e di diffidenza nell’area euro: da Berlino e Bruxelles, molte capitali cercano il modo di rendere obbligatoria per i Paesi più fragili la modernizzazione delle economie, non solo la disciplina dei conti. L’esperienza italiana dell’ultimo decennio — molto rigore di bilancio, poche riforme di fondo — non ha fatto che rendere ancora più acuta questa sensibilità nel Nord Europa. È per questo che Oettinger guarda al bilancio europeo come un mezzo per condizionare alcune scelte politiche nazionali: propone addirittura di creare «uno strumento per la realizzazione delle riforme strutturali».
Si annuncia dunque un negoziato complesso. Anche con novità interessanti dal lato del gettito a favore di Bruxelles. La Commissione Ue proporrà che oltre 200 miliardi non vengano versati dai governi, ma da nuove «risorse proprie» europee (come indicato da un gruppo di lavoro presieduto da Mario Monti). Fra queste proposte di entrate spicca una tassa paneuropea sull’uso degli imballaggi di plastica non riciclabile, una forma di gettito dal programma europeo di scambio dei diritti di emissione di Co2 (l’«emission trading scheme») e una terza fonte di tassazione armonizzando la base fiscale del prelievo sulle imprese. Anche qui il fine è anche politico: impedire che l’Olanda, l’Irlanda o l’Ungheria continuino a estrarre ricchezza dagli altri Paesi, agendo da veri e propri paradisi fiscali per le multinazionali.