Qualche settimana fa Fedele De Novellis raccontava su questi pixel i piccoli miracoli di una parte dell’economia italiana che, nonostante una ripresa molto più annaspante rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona, mostra importanti segni di competitività, testimoniati da numeri delle esportazioni superiori a Francia e Germania negli ultimi due anni.
Dietro questi segnali incoraggianti si nascondono tante piccole e medie realtà, poco note ai media generalisti, perché hanno la sfortuna (o la fortuna) di non rientrare nell’interesse della politica, che spesso ne parla in termini generici e senza cognizione di causa. Eppure rappresentano la parte più vivace e interessante del nostro capitalismo, abile a sfruttare le opportunità che il mondo globalizzato offre a chi è capace di coglierle, senza aspettarsi troppo dal governo di turno.
Le definizioni che racchiudono queste imprese vincenti sono varie e forse troppo ingessate, ma alcuni risultati appaiono inequivocabili. In un recente lavoro Vera Zamagni [1] ricorda che un campione di medie imprese, individuato dal Servizio studi di Mediobanca (con meno di 500 addetti, fatturato tra 16 e 355 milioni di euro, di proprietà italiana), ha fatto registrare nel periodo più duro della crisi (2007-2014) +9,5% di fatturato, +13,4% di valore aggiunto, +25% di esportazioni, +8,7% di produttività, +4,3% di occupazione (rapporto Unioncamere 2016). Scrive Zamagni: «(…) la principale causa di successo di queste imprese sta proprio nelle esportazioni: nel 2015 il saldo netto delle esportazioni delle medie imprese manifatturiere è stato di 98 miliardi di euro, praticamente uguale al saldo delle imprese tedesche della medesima dimensione (100 miliardi). La grande differenza tra il saldo totale della bilancia manifatturiera dell’Italia, pari a 94 miliardi di euro, e quello della Germania, di 329 miliardi, era dovuta alle grandi imprese, che in Germania avevano un surplus di 229 miliardi e in Italia un deficit di 4 miliardi».
Un po’ diverso è il campione scelto da Filiberto Zovico nel suo libro [2], dedicato a 500 imprese definite dall’autore come i nuovi champion emersi dalla crisi: 500imprese su un campione di 14.632, con un fatturato compreso tra i 20 e i 120 milioni di euro, analizzate per il periodo 2010-2016, definite «grandi imprese artigiane iper tecnologiche». Hanno fatto registrare un tasso annuo medio di crescita del 7%, un indice di redditività medio che sfiora il 20% e occupano circa 77 mila dipendenti. Le stesse hanno reinvestito utili, negli ultimi sei anni, per 7,3 miliardi di euro. Il 40,6% si trova nel Nord-Ovest, il 38,8% nel Nord-Est, il 13,2% nel Centro, il 7,4% nel Sud (isole comprese). Una ripartizione geografica che non sorprende.
Secondo l’autore tali imprese sono accomunate da dodici elementi distintivi, ricostruiti attraverso dialoghi con gli stessi imprenditori. Ed è proprio dalle loro parole che si capisce perché, in questa fase, fanno la parte dei vincenti. Ciò che maggiormente traspare è l’attenzione nei confronti delle persone, che siano dipendenti, clienti o fornitori, nonché l’attaccamento ai valori, all’etica ed alla cultura d’impresa. Si caratterizzano inoltre per la ricerca della solidità finanziaria, senza ricorrere ad un indebitamento insostenibile, per la predisposizione ad una logica che mira ad aumentare gli utili piuttosto che il fatturato, per credere nel mercato anche nei periodi crisi, per puntare fortemente su investimenti in digitalizzazione ed innovazione, per approfittare della globalizzazione anziché subirla.
Giovanni Ferrari, amministratore delegato di Brevetti CEA, racconta perché non teme di ospitare delegazioni internazionali di industrie farmaceutiche tutte le settimane, pur essendo consapevole del rischio di esser copiato, da cinesi e non solo: «Il segreto è quello di stare sempre un passo davanti agli altri, costringendoli ad inseguire. Per farlo abbiamo ingaggiato i migliori ingegneri e ottici sfornati dalle nostre università (…)». Così invece Carlo Colombo, alla guida di Colmar: «Ricordo ancora quando si presentò la questione Cina. Diversi imprenditori erano dell’idea che si dovesse alzare il sistema daziario per fermare le esportazioni dalla Cina. Noi abbiamo invece sempre pensato che la Cina fosse un’opportunità. E quindi ci siamo insediati lì costruendo non tanto e non solo un ufficio di rappresentanza, ma un vero e proprio modello di business, Dopo quindici anni i colleghi mi hanno dato ragione (…)». Lo stesso Colombo ricorda come la follia imperialista del fascismo in Etiopia, e le conseguenti sanzioni inflitte dalla Società delle Nazioni all’Italia, provocarono il blocco degli ingenti crediti dall’estero spettanti all’azienda di famiglia, restituiti solo negli anni ’50 iper-svalutati (dedicato a chi ignora le conseguenze economiche di scellerate politiche internazionali isolazioniste). Significative anche le parole di Mirko Urbani di Comelit sugli incentivi del piano industria 4.0: «Ne siamo felici (…) perché avremo un piccolo vantaggio che non era previsto. Ma se avessimo aspettato gli incentivi 4.0 per investire in macchinari, a questo punto saremmo già fuori mercato. Investire deve stare nella logica strutturale di un’impresa, non può essere un fattore occasionale dettato dagli incentivi».
Non solo rose e fiori però. Lo stesso autore evidenzia come le dimensioni limitate di queste aziende possano comprometterne la longevità, soprattutto a causa di passaggi generazionali complicati. Ecco perché molte rischiano di perdere il loro spirito innovativo o di finire in mani straniere interessate solo ad acquisirne il know-how e non a svilupparle. È un po’ il grande limite del nostro capitalismo di nicchia che – a causa dell’assenza di grandi aziende – per competere ha sempre bisogno di nuove generazioni di piccoli e medi imprenditori capaci e lungimiranti, in grado di sfidare il mondo sul piano della qualità e dell’efficienza. Ma quando questi vengono a mancare tutto il resto soffre. L’altro grande problema è sicuramente quantitativo. I champion sono una netta minoranza tra una moltitudine di micro e piccole imprese poco produttive, scarsamente digitalizzate ed incapaci di modernizzarsi. Inoltre hanno un’estensione geografica limitatissima, quasi da oasi nel deserto.
Tuttavia, le aziende raccontante da Zovico possono insegnare molto ai decisori pubblici. Esse stanno emergendo senza aver goduto di aiuti politici, senza invocare trattamenti di favore, nonostante i mali del nostro sistema pubblico. Ci sarebbe bisogno di una classe dirigente in grado di valorizzarle e di creare le condizioni di contesto favorevoli alla nascita o alla crescita di nuove realtà. Di contro, come sottolinea Zovico (e come ho cercato di evidenziare in questo post), assistiamo ad un’Italia «(…) raccontata solo come il grande Paese del sole, del mare e del cibo. A ogni passaggio critico della nostra storia industriale la narrazione si è fondata sul presupposto che non siamo fatti per essere un Paese industriale. (…) Ogni fenomeno imprenditoriale di successo è stato letto come “eccezione” alla regola».
Come se fossimo la seconda manifattura d’Europa per caso. Ma a volte sembra davvero che lo siamo per caso, sentendo le dichiarazioni di politici ed intellettuali che sembrerebbero voler fare dell’Italia un unico e grande agriturismo.