Il grande nemico della nicchia è la grande distribuzione. Si comincia sempre così: una cosa piace a qualcuno; altri lo vedono, la provano, e in modo più o meno virale quell’oggetto diventa agognato da molti. Si chiama “apprendimento sociale”: i nostri acquisti sono influenzati dagli altri. Nel mondo di ieri era un po’ più complicato vedere quello che comperavano gli altri; nel mondo di oggi è molto semplice. Anzi, internet e i vari siti di e-commerce fanno alla gara per condurti a vedere cosa gli altri acquistano. Da lì nascono le community che sono prima di tutti luoghi di interessi e di consumo comune. Pensiamo al cibo biologico. Qualche anno fa era presente solo in alcune botteghe, poi si è passati ad una prima catena di negozi, oggi all’interno di qualsiasi supermercato della GDO si trovano prodotti a marchio biologico. Da quando il cibo biologico è diventato presente sugli scaffali dei supermercati, non possiamo più considerarlo una nicchia. Si tratta di referenze su cui occorre avere una certa disponibilità nel magazzino, una supply chain certificata, una produzione di massa. Occorrerà a quel punto inventarsi una nuova novità che tra qualche anno rimpiazzerà il cibo biologico. La parola bio nel frattempo è diventata di uso comune tanto che la si appiccica non solo ai prodotti alimentari. Tra finzione e realtà, la parola bio rappresenta tutto ciò che è naturale. Nel lessico contemporaneo è sinonimo di vero e, soprattutto, che fa bene al corpo umano. Anche il marketing è stato contagiato dal bio. In questo caso il biomarketing “prende le misure” del corpo. Giulio Noci, professore di marketing al Politecnico di Milano, ci ha scritto un intero libro su questa nuova disciplina.
Bio-consapevoli
Il biomarketing mette insieme metodi di ricerca provenienti da diversi ambiti scientifici, che vanno dalla psicologia alle neuroscienze, e li applica in ambito marketing. Mentre il marketing osserva il consumatore nel suo atto di acquisto, il biomarketing analizza, attraverso una serie di strumentazioni, l’attività cardiaca, cerebrale, respiratoria, la contrazione muscolare, le micro espressioni facciali e la conduttanza cutanea della persona. Un check up completo di tutto ciò che avviene nel nostro corpo mentre siamo intenti a comperare o a desiderare di farlo. Misurazione che vanno a dimostrare come la persona interagisce con l’oggetto. Un livello di analisi talmente approfondito che registra come ognuno di noi reagisce di fronte ai diversi stimoli di marketing. Il biomarketing va oltre il neuromarketing, che osserva la sola attività celebrale. La combinazione dei due strumenti, offre un livello di integrazione tale da consentire di avere una visione completa su cosa avviene nel rapporto mente-corpo: siamo di fronte ad una macchina della verità che fornisce molti elementi su che cosa produce l’acquisto nel nostro sistema e, contemporaneamente, come si potrebbe ingenerare la voglia di acquistare determinati prodotti. L’auto consapevolezza, di cui ognuno di noi dispone, è uno degli elementi che ci permette di capire quali emozioni si stanno generando nel compimento di un determinato atto. Non sempre riusciamo ad essere consapevoli di quello che compriamo perché siamo travolti dalle emozioni stesse – ad esempio la paura o il desiderio -, il biomarketing promette di certificare tutto ciò che avviene senza che noi ne siamo coscienti. Il ricorso ad analisi di biomarketing consente di esaminare in profondità i comportamenti di una data persona, come mai prima. Per l’autore
“diventa quindi possibile andare a definire precisamente la distribuzione dei momenti caldi durante il customer journey di quella persona e valutare come l’engagement complessivo vari secondo i differenti stadi. Le implicazioni coinvolgono sia le strategie media e di contenuto, sia la strategia di misurazione.”
Mezzo potente, e mezzo pericoloso da maneggiare con cura, il biomarketing. Non c’è alcun dubbio.
Dal marketing al dataking
Il libro di Noci affronta l’evoluzione del marketing nella digitalizzazione del mondo. Il marketing come lo conoscevamo, quello che nelle aziende si divideva tra marketing strategico e marketing operativo, non lo conosciamo più. Il mondo digitale sta scompaginando non solo le vie fisiche delle nostre città. I negozi chiudono non solo perché si sono trasferiti nei centri commerciali posti alle periferie delle città, oggi scompaiono perché il grande negozio virtuale si mangia le mura che costituivano il luogo fisico dove avveniva la nostra esperienza da clienti. Una tendenza dirompente che sta mettendo in discussioni molte aziende blasonate che avevano fatto del retail capillare la loro forza. Si tratta di una tendenza che avrà ulteriori sviluppi anche se non destinata a eliminare del tutto la formula classica. I grandi retailer hanno già imparato quanto sia importante coniugare spazio fisico con quello virtuale. Gli spazi fisici diventano camerini dove provare la merce, gli spazi virtuali dove fare la transazione economica. Rimane un punto di congiunzione: la marca, e tutto quello che essa esprime. Noci – da questo punto di vista – sottolinea come il processo di un individuo verso l’acquisto non sia più lineare. In passato si poteva anche essere influenzati dalla pubblicità, ma quando si usciva di casa le reali possibilità di acquisto erano determinate dai negozi che esistevano nel tuo spazio visivo. La geografia del consumatore era limitata da una mappa ben circoscritta. Oggi il consumatore si muove con una traiettoria simile a quella di un pesce che nuota nell’oceano. Può zizzagare da un sito ad un altro. Avvicinarsi ad un prodotto, venirgli un dubbio, fare una verifica e dopo aver letto un post muoversi in una direzione opposta. Non che su internet non esistano più gli acquisti di impulso, quelli che superano ogni logica di processo. Qualcuno si è inventato la strategia di partire dal web per vendere solo nel negozio fisico. Un modo inverso per creare una domanda elevata con una risposta limitata. A quel punto il prodotto rischia di diventare un oggetto del desiderio tanto da diventare un cult. Lo stesso tempo dedicato agli acquisti, una volta confinato a certi orari, è diventato h24. Con il nostro smartphone tutto si può a qualsiasi orario. Legare il valore della marca ad un consumatore di questo tipo non è facile. In aiuto ci sono i big dati. I big dati offrono una quantità di elementi che mai nella storia di chi operava nel marketing poteva possedere. Siamo di fronte ad una situazione che offre una tale accessibilità, ampiezza e continuità di flussi di dati che abilitano non solo chi opera nel mondo del marketing ma anche tutte le altre funzioni aziendali: operations, sviluppo prodotto, risorse umane. Noci, però, da questa deriva dataista prende le distanze. Lo dice chiaro e tondo: “i big data non possono sostituire l’intuizione del management”.
Possiamo chiamarlo anche buonsenso. Il grande biologo Jared Diamnond nel sito edge.com qualche tempo fa scriveva che perfino gli scienziati possono farsi tradire dai singoli dati: “
Qualunque scienziato potrebbe inanellare un’argomentazione dettagliata che poi giunge a una conclusione inaccettabile perché contraddice il buon senso; ma molti dei suoi colleghi potrebbero comunque accettare quella conclusione perché si lasciano catturare dai particolari dell’argomentazione”.
Il messaggio è chiaro: state attenti perché prima o dopo i dati vi possono trarre in confusione e portare fuori strada. In caso contrario verrebbe da chiedersi a cosa servono i manager se le statistiche decidono tutto.
La relazione si fa marca
Rimane il fatto che per quanto mutevole sia il rapporto con la marca, la relazione con il cliente è il punto centrale del “che cosa” propongo in termini di prodotto/servizio e del “come interagisco”. Anche nel “come interagisco” stiamo osservando un capovolgimento degli elementi perché l’oggetto dello scambio sta diventando il “che cosa”:
“Prendiamo, per esempio, il prodotto pasta: molto presto avremo a che fare con situazioni in cui un individuo sceglie una specifica proposta per il fatto che gli permette di comprare una libreria software (di differenti tipologie di pasta) da utilizzare a casa per la realizzazione del prodotto finito da lui desiderato. Una totale inversione del paradigma di produzione, che diventa fase finale della catena del valore; addirittura a valle della specifica transazione. In questo caso, il «come» – la proposta di ri-articolazione della catena del valore – diventa evidentemente l’oggetto dello scambio.”
Questo comporta che i confini tra marketing e strategia si dissolvono perché quello che chiamavamo strategia di business è fornito proprio dal marketing. Una funzione che assume un ruolo pervasivo nell’intero ciclo operativo dell’azienda. La risonanza emotiva che la marca deve creare nel cliente non può essere solo contenuta nel prodotto, ma va ricercata in tutta la filiera che ci sta a monte e a valle. Nell’era del digitale, e dei social network diffusi, la marca equivale all’esperienza del cliente per via della sua capacità di andare a incidere sulle emozioni. Si parla, infatti, di acquisti post aspirazionali (from belonging to being). Da questo punto di vista, la stessa gestione dei collaboratori all’interno dell’azienda deve muoversi con la stessa risonanza di cui è costruita la relazione con il cliente. La community interna non è per niente diversa dalla community esterna. Si mischiano, si alternano nei ruoli. Non sono neanche due facce della stessa medaglia perché convivono con la stessa relazione: gli stessi valori, le stesse modalità espressive. Un unico “cuore” che batte per l’intero corpo. Tutto questo richiede vedere il marketing e la comunicazione, interna o esterna all’azienda, non più una semplice sequenza di attività discrete che vengono pianificate all’inizio dell’anno, ma come Noci le definisce un “ambient activity”.
Titolo: Biomarketing
Autore: Giuliano Noci
Editore: Egea
210 pp; 28 Euro