In Veneto e nei luoghi d’incontro della jeunesse dorée europea, Cortina d’Ampezzo in primis, i fratelli Marzotto – Vittorio Emanuele, Italia, Umberto, Giannino (che correva con una Ferrari 212 progettata unicamente per lui), Paola, Laura e Pietro, il conte Pietro – sfoggiavano quell’aura di chi appartiene a una grande famiglia di imprenditori e alla storia d’Italia. A modo loro, pure i Marzotto furono, come gli Agnelli, una famiglia regnante. Non solo e non tanto perché all’alba di tre secoli fa gettano le basi di quel modello manifatturiero che innerverà il tessuto industriale del Nord Italia, ma perché ognuno dei suoi rappresentanti è protagonista delle rivoluzioni economiche che segneranno la storia recente d’Italia. Quattro sono i nomi che lasciano una traccia indelebile di una famiglia con un nugolo di cugini e nipoti: Gaetano senior, Vittorio Emanuele senior, Gaetano junior e il conte Pietro, che ci ha lasciato ieri. Tutti padri e figli degni della saga dei Buddenbrock. Unica differenza: la valle dell’Agno, nel cuore del Veneto, al posto di Lubecca. Ognuno dei capostipiti (i primi due furono deputati e senatori, ruolo che poi toccherà al fratello maggiore di Pietro, Vittorio Emanuele junior), percorrono un pezzo di un cammino che porterà il Bel Paese a diventare la seconda potenza manifatturiera d’Europa.
Pietro, senza togliere nulla a chi lo precedette, era di una pasta diversa. Un manager schivo e imprenditore visionario, un ircocervo che non aveva paura di mettere a nudo le frizioni che due ruoli così confliggenti sono in grado di generare. Quando il manager parlava senza peli sulla lingua all’imprenditore (e viceversa) erano guai. La politica economica, la sua autentica passione, la studiava senza sosta e la amava. Ma disprezzava i politici. E non perdeva occasione per ricordarlo. Ce lo disse sorseggiando un Chivas Regal mentre un Learjet decollato da Verona ci portava per un viaggio lampo a Brno, in Moravia, per inaugurare un’altra fabbrica di lana appena acquisita, la Nova Mosilana: «Le persone serie, in Italia, non possono far politica». Era la primavera del ’98. Un anno prima si era consumato l’altro grande rifiuto: dopo lo scontro nel 1980 con Enrico Cuccia per il piano di risanamento di Snia Viscosa, di cui Marzotto era presidente esecutivo, era toccato a Maurizio Romiti, figlio di Cesare, intenzionato a fondere la sua Hdp con il gruppo Marzotto. Ci fu una trattativa serrata, il via libera si rimanda di giorno in giorno, si chiude, no salta tutto, fino a quando il conte Pietro ha un brutto presentimento confortato dai numeri e fa saltare la trattativa. Forse in cuor suo coltiva un pregiudizio nei confronti dei “figli di”.
È il niet che anticipa di qualche anno la decisione di abbandonare ogni incarico operativo. Una scelta incoraggiata carsicamente da molti esponenti della famiglia che si coalizzano contro di lui. «Ora andrò in giro a reclutare i clienti della Marzotto», scherza con i cronisti dopo una carriera lunga 26 anni. Questo carattere spigoloso, inframezzato da lampi di autoironia, in realtà mimetizzava una grande tenerezza che spesso lo spingeva a ingaggiare scontri epici con i giganti del capitalismo italiano. Aveva ragione Indro Montanelli: chi ha un carattere ha un cattivo carattere. Il suo capolavoro rimane la modernizzazione della Marzotto. Ci mette dieci anni a organizzare un modulo di gioco che farà della sua azienda una multinazionale capace di competere sui mercati mondiali: Bassetti, Linificio e capanificio nazionale, Guabello e Lanerossi le punte d’attacco. Nel ’91 aggiunge la tessera che rafforza l’internazionalizzazione: Hugo Boss.
Già allora Pietro Marzotto intuisce che una famiglia-azienda alla quarta generazione con una cinquantina di discendenti e oltre può generare solo conflitti. Pietro, ben prima dei Benetton e di Del Vecchio, è consapevole del fatto che proprietà e gestione debbano essere separati. È un comandamento che ripete in Confindustria, dove sarà vicepresidente con delega al Centro studi, l’ufficio più prestigioso dell’associazione degli industriali. In pochi lo ascoltano, lui sembra essere troppo avanti sui tempi. Via via abbandona i ruoli onorifici e operativi. Agli amici e ai cronisti racconta la bellezza della sua tenuta di Portogruaro, Valle Zignago, ettari ed ettari di meraviglie. Finalmente è libero di esternare i suoi sentimenti più reconditi. E di esercitare il suo diritto alla protesta. Rimette l’onorificenza di cavaliere del lavoro perché l’associazione non ha revocato il cavalierato a Silvio Berlusconi dopo le condanne in tribunale. Un j’accuse che è un manifesto politico. Ma il conte Pietro era un bon vivant con la schiena dritta. E l’ultima operazione la dedica all’acquisizione di Peck, il negozio milanese di enogastronomia – la sua cantina è leggendaria – che rivaleggia con il blasonato Fauchon di Place de la Madeleine a Parigi. Per lui, dopo 80 anni e più di vittorie e sconfitte, vale la massima di Fernando Pessoa: siediti al sole, abdica e diventa il re di te stesso. Magari impugnando una bottiglia di champagne o di whisky. Anche questo, a suo modo, un atto di rivolta.