Avolte ritornano. Quasi mai per questioni di cuore, quasi sempre per ragioni di portafoglio. Così come se n’erano andate per sfruttare un vanta o, così ora che quelvantaggio non c’è più, ora che sono cambiati i fattori determinanti perla competizione sui mercati, imboccano la strada inversa. Buon per il Paese, buon per l’industria nazionale, che vede invertirsi la tendenza alla delocalizzazione e rimpatriare decine di aziende che negli anni 90 o nei primi Duemila erano emigrate nel Far East o nell’Est Europa. Bene per l’occupazione, perché almeno una parte dei posti di lavoro perduti quando gli stabilimenti si spostavano oltreconfine stanno gradualmente tornando in Italia. Il processo di reshoring, cioè il totale o più spesso parziale ritorno in Patria di produzioni che negli anni passati erano state estemalizzate, è cominciato da qualche anno.
È favorito dalle razionalizzazioni e dai ripensamenti strategici che gli anni durissimi della Grande Crisi hanno imposto a tutte le imprese italiane ed europee. Ovviamente le aree del Paese più interessate dal fenomeno – cioè le regioni del Nord Est – sono le stesse che anni fa erano state colpite dal processo inverso, quello delle delocalizzazioni produttive. L’Annual Report 2017 dello European Monitor of Reshoring (il migliore studio scientifico sul fenomeno, promosso con fondi europei da un consorzio di quattro atenei italiani: Udine, Bologna, L’Aquila e Catania) censisce 165rasi di reshoring tra il 2014 e la fine del 2017, che vedono protagoniste le aziende europee. Tra queste, quelle italiane (32) sono le più numerose, insieme a quelle inglesi, una spanna avanti rispetto alle francesi (23), incalzate dalle norvegesi che nell’ultimo anno sono state le più attive.
Complessivamente le operazioni censite hanno avuto un impatto significativo sull’occupazione nei rispettivi Paesi, con un totale di oltre 11mila posti di lavoro rimpatriati (o creati ex novo). Ovviamente, nel caso di siti produttivi costruiti dal prato verde, proprio per ospitare le produzioni riportate a casa, si tratta di una stima per difetto: al calcolo andrebbero a u unti tutti i benefici di cui il territorio ha fruito in conseguenza dell’investimento. Per esempio, il lavoro per le imprese edili che hanno materialmente costruito il sito produttivo o per le aziende produttrici di beni strumentali che lo hanno dotato degli impianti. Secondo il rapporto “Economia e finanza dei distretti industriali” del centro Studi e ricerche di Intesa San Paolo, i casi di rimpatrio o potenziamento produttivo più noti avvenuti negli anni scorsi hanno riguardato parecchi marchi della moda, come Louis Vuitton, Prada, Ferragamo, Ermenegildo Zegna, Bottega Veneta, Geox e Benetton (con il nuovo reparto di tessitura a Castrette di Villorba dove viene realizzato il maglione in cachemire e lana merinos) e aziende produttrici di borse e valigie come Piquadro e Nannini. Proprio l’abbigliamento e gli articoli in pelle figurano ai primi posti (subito prima dei computer e dei prodotti di elettronica e ottica) della classifica dei settori interessati dalle operazioni di back reshoring collezionate nella banca dati Uni-Club MoRe reshoring.
Ma stanno riportando a casa le produzioni anche altre grandi e medie aziende, soprattutto del Nord Est. Nel distretto degli occhiali del Bellunese (quello che secondo Intesa San Paolo registra le migliori performance reddituali) il suono Safilo sta concretizrando il piano industriale 2020, un investimento da 60 milioni di euro, che ha l’obiettivo di riportare in Italia il 70% della produzione degli occhiali e dei suoi componenti. In primo luogo a Longarone e poi negli altri siti produttivi di Santa Maria di Sala e Martignacco (in Friuli). L’azienda vicentina Masters, uno dei leader mondiali nella produzione di bastoncini da sci e trekking, sta rimpatriando la fase di lavorazione dei tubi in alluminio de localizzata in Cina. L’operazione, secondo l’azienda, ha causato un au’ mento dei costi intorno al 30 per cento, più che compensati dai vantaggi sul fronte della flessibilità organizzativa. L’impresa reggiana Vimec (montascale e ascensori) ha rilocalizzato nel suo distretto emiliano della meccanica la linea di montascale mobili delocalizzata anni fa nel Guangdong. Nel modernissimo stabilimento della bolognese Five (vedere l’articolo qui in pagina) è partita la lavorazione delle biciclette elettriche destinata a rimpiazzare quelle prodotte a Shangai. Anche la trevigiana Stefanel ha in programma un parziale rientro in Italia delle produzioni, per ridurre significativamente il peso dei fornitori cinesi. E Diadora pianifica di riportare dall’Estremo Oriente in Veneto almeno 1110% della sua produzione di scarpe e abbigliamento sportivo entro i prossimi tre anni. Abbigliamento e moda grandi protagonisti del reshoring, dunque. Anche se le associazioni delle aziende del settore tendono a ridimensionare il fenomeno: «Nel nostro settore non è particolarmente evidente né impattante – dice Gianfranco Di Natale, direttore generale di Sistema Moda Italia – C’è poco reshoring perché negli anni scorsi non c’era mai stato un grande flusso di offshoring».
Vero forse per i marchi di fascia alta, molto meno per i prodotti che si trovano sugli scaffali della grande distribuzione e delle catene commerciali. «Sì, tendono a rientrare le aziende che avevano delocalizzato in Romania o negli altri Paesi europei. Oppure le imprese di quei Paesi, come la Gran Bretagna, che hanno varato piani di incentivo alla reindustrializzazione. Noi quegli incentivi non li abbiamo. E poi produrre in Italia ha un valore aggiunto in termini di qualità e di “marchio” che forse qualcuno, negli anni della crisi, aveva sacrificato a favore dei vanta sui costi. Oggi che i costi crescono anche in Cina e nell’Europa dell’Est, tornano indietro». Quello delle motivazioni dei cambi di strategia e dei rientri in patria è il capitolo forse più interessante. Nelle statistiche dello European Monitor, i movimenti più citati sono la generica riorganizzazione del gruppo e i più stimolanti “scarsa qualità delle produzioni offshore”, “tempi di consegna” e “prossimità al cliente”. Fattori che sono ovviamente cresciuti nel tempo fino a diventare predominanti quando anche in Cina e nei Paesi dell’Est Europa il costo del lavoro ha preso ad aumentare, proporzionalmente alla presa di consapevolezza da parte dei lavoratori asiatici e alla progressiva integrazione europea di Romania e altri Paesi dell’area. È del tutto evidente che, se l’enorme vantaggio in termini di costo del lavoro si assottiglia, i minori costi di trasporto, la variabile dei tempi, il controllo sulla qualità della filiera produttiva, la vicinanza a distributori e clienti finiscono per diventare i fattori chiave delle scelte strategiche delle aziende.
Per quelle nazionali, poi, c’è il valore del “made in Italy”, particolarmente apprezzato dai consumatori stranieri, non a caso uno dei fattori più considerati. A cui si aggiunge il crescente orientamento verso un consumo più consapevole e una maggiore sensibilità ai temi della sostenibilità sociale e ambientale. Certificato da una indagine di Price Waterhouse Coopers secondo cui i millennials sono disposti anche a pagare di più se il prodotto è a basso impatto sociale e ambientale.
Ma c’è un fattore destinato e pesare più degli altri da qui in avanti nel mix delle scelte strategiche: i processi di automazione. «Il grappolo di tecnologie 4.0 – spiega Guido Nassimbeni, professore di Ingegneria gestionale a Udine e coordinatore del gruppo di lavoro sul reshoring – sono oggi il tema dominante. I Paesi destinati ad attrarre i più consistenti flussi di rilocalizzazione produttiva saranno quelli capaci di offrire i maggiori vantale sotto il profilo delle competenze, della vicinanza ai centri di ricerca, ai servizi, alla consulenza tecnica. Se un’azienda ha in programma un investimento per la costruzione di un nuovo stabilimento, conviene metterlo là dove esiste un polo di eccellenza sulle tecnologie 4.0». E l’Italia com’è messa? «Si sta appena cominciando a ragionarci, anche nelle università. Le aziende italiane stanno guardando con interesse, ma non ancora con consapevolezza piena, a questi processi». Ce la faranno? «Gli italiani sono straordinari: costretti a competere con i tedeschi, con la stessa moneta ma non con le stesse infrastrutture, materiali e immateriali, in molti settori reggono la concorrenza. E alcuni perfino vincono».