Il modo in cui le parole cambiano il loro significato non è mai neutrale.Sempre più spesso mi ritrovo ad usare la parola medietà e mi accorgo che quel termine che prima usavo come sinonimo di medietà operosa, di affluenza e di benessere diffuso della società, è oggi emblematica di una crisi dei ceti medi che rimanda a ciò che sta tra un tetto di cristallo in alto e ciò che viene meno in basso. Vale anche per i due concetti gemelli di città media e di capitalismo intermedio, utili per ripensare alcune trasformazioni di fondo del capitalismo italiano.
Oggi una città media è il nucleo di una piattaforma territoriale che assembla un centro urbano in relazione funzionale con territori della dimensione di un milione/un milione e mezzo di abitanti. Le città medie sono i nodi di una trama urbano-regionale d’area vasta (Balducci), nella quale si addensa ciò che chiamo capitalismo intermedio, un tessuto produttivo differenziato ma a forte caratterizzazione manifatturiera, tutt’ora ancorato al territorio, in cui anche le grandi funzioni terziarie come utilities e autonomie funzionali tendono ad assumere sempre più organizzazione industriale.
Sto parlando di quella piattaforma di sviluppo che guardando a Nord Ovest da Milano si allunga poi sull’asse pedemontano, passando da città come Bergamo e Brescia e poi Verona, Vicenza e Padova fino a Treviso, e passando da Reggio Emilia e Modena, si incunea lungo l’asse padano della Via Emilia fino a Cesena. Non è certo un elenco esaustivo ma indica bene il riposizionamento del vecchio Nec di Giorgio Fuà, oggi più Nord che Centro. È guardando a questa nebulosa urbana e produttiva che possiamo tentare di ragionare sul futuro del Paese e rimettere con i piedi per terra i dilemmi della politica. In primo luogo chiedendoci se questa medietà operosa sia espressione del venire avanti di un nuovo modello espansivo di capitalismo italiano, in grado di incorporare globalizzazione e svolta tecnologica, oppure se ci si trovi di fronte ad un sistema costretto ad essere intermedio per l’incapacità di confrontarsi verso l’alto con le global companies.
Dunque una medietà a rischio di essere più statica che dinamica. Domanda che riguarda anche natura e funzioni che le città medie giocano oggi come nucleo di piattaforme urbane. Sono mere aggregazioni residenziali di utenti-clienti e di funzioni amministrativo-commerciali, oppure svolgono ruoli direzionali di qualche tipo? E rispetto alla dimensione globale sono città-porta per i flussi in atterraggio nei territori, oppure città-soglia in grado di utilizzare funzioni e fabbriche per connettere il territorio verso i flussi?
Domande che suggeriscono un’altra questione di fondo, ovvero se il capitalismo intermedio e le città medie siano ancora meccanismi socialmente inclusivi oppure no. Il fordismo nella sua verticalità includeva attraverso conflitto di classe e rappresentanza. Il primo postfordismo includeva attraverso la Partita Iva come canale di ascesa dell’individuo operoso in un mercato ancora affluente. Nel capitalismo intermedio la questione è la forbice tra imprese e lavori che stanno sulle punte alte e imprese e lavori che stanno nella parte bassa del ciclo.
Interessante il caso di Brescia, una città e un territorio ben piantati al centro dell’asse pedemontano dello sviluppo. Una città che ha sempre mostrato una grande capacità di metabolizzare le discontinuità storiche.
L’identità di Brescia vanta tre grandi radici storiche: una forte e pervasiva civilizzazione industriale, che ha permeato di sé non solo l’economia ma la politica e i meccanismi della vita sociale; la forza della tradizione culturale e di governo del cattolicesimo liberale; un conflitto capitale-lavoro che nel secolo breve è stato tanto duro quanto capace di trasformare la dialettica di classe in istituzioni e rappresentanza. Come ha scritto Marco Vitale, è questo capitale collettivo che oggi consente alla città di “ritornare”.
E per molti versi la Brescia odierna è una città emblematica di quella medietà operosa di cui sto ragionando. Un microcosmo in cui scavano varie metamorfosi strutturali, che sono per la città altrettante discontinuità e modi di ricordare il futuro. Anzitutto il passaggio dalle grandi fabbriche, la Brescia città del tondino, ad un sistema plurale la cui intelaiatura è sorretta da oltre 400 imprese che hanno fatto il salto all’internazionalizzazione produttiva, da un cospicuo numero di medie imprese, da un tasso di crescita superiore alla media regionale, ma che allo stesso tempo vede la gran parte delle Pmi ancora ancorate ad un modello di piccola innovazione incrementale. Poi, seconda metamorfosi, il processo di terziarizzazione, con esperienze come Talent-Garden e la diffusione della grande distribuzione commerciale, in parte evoluta nel polo della merce e della conoscenza, il Franciacorta Outlet Village e il Musil dedicato alla storia della civiltà industriale. E poi il campo della cultura e degli eventi, che insieme con la cura della persona e della coesione sociale, fanno di Brescia una sorta di distretto del welfare con un sistema di partecipazione che delinea una versione civica della smart city.
Il sociale è anche la sfera in cui l’esperienza di Brescia fa emergere la novità che caratterizza le nuove città-piattaforma intermedie: la compresenza (stabile?) di coesione e polarizzazione sociale. Una città allo stesso tempo integrata, anziana, multietnica e con forti disuguaglianze di reddito. Ma Brescia è anche città della trasformazione di utilities e banche in industria delle reti e della finanza, dimensione di metamorfosi centrata sulla capacità di metabolizzare i flussi di capitale. Infine,nel territorio, la trasformazione di una agricoltura estensiva tradizionale in filiera complessa del food e del turismo delle esperienze, dal polo del Garda alle cantine della Franciacorta, passando per cultura ed eventi nella Brescia dentro le mura.
Il tema per Brescia e le sue élite è come la città e le sue funzioni possano dialogare con il territorio, funzionando anche da amplificatori di connessioni con il mondo. Essere capitalismo intermedio significa dunque capire come ricostruire struttura trainante verso l’alto riaprendo le porte della mobilità sociale verso il basso. Questa la grande questione che interroga le tante città del capitalismo intermedio.