Nel mezzo della crisi politico-parlamentare italiana l’economia batte un colpo e fa sentire la sua presenza. Il messaggio arriva tramite un’elaborazione del Fondo monetario internazionale, amplificata da un giornale di prestigio come il Financial Times , e ci racconta un’amara verità: la Spagna ci sta sorpassando e nel giro di qualche anno ci potrà addirittura distanziare di diversi punti. Si può discutere se l’indicatore scelto (il Pil pro capite) o più in generale i ranking degli organismi internazionali restituiscano una fotografia corretta del movimento dell’economia post crisi e si può anche sostenere che non è sufficiente una querelle statistica per trarre delle conclusioni significative di politica economica. Ma lo schiaffo resta. Ci possiamo consolare ricordando come la Spagna non possa essere presa a modello assoluto se non altro perché, anch’essa, è alle prese con gravi problemi di stabilità politica, solo temporaneamente mitigati dal ruolo e dalla figura di un capitano di lungo corso come Mariano Rajoy. Possiamo aggiungere che i nostri cugini hanno da risolvere il drammatico rebus della secessione catalana, i cui esiti non sono ancora chiari e che vede una contro l’altra le due città capofila del Paese. Anche per quello che riguarda il confronto tra i due sistemi produttivi è lecito avanzare argomenti patriottici e quindi di segno contrario.
Senza togliere niente al successo globale di Mister Zara ben altra è la consistenza della nostra industria per articolazione settoriale, tecnologie, vantaggi competitivi seppur legati a nicchie di mercato. Infine per completare il quadro non è certo peregrino rammentare come la nostra manifattura sia fortemente collegata all’area di influenza economica tedesca e pienamente inserita nelle grandi catene internazionali del valore.
Messi però sulla bilancia i pesi e gli argomenti testé ricordati resta il fatto che la Spagna cresce il doppio di noi, nel 2016 ha fatto registrare +3,3% di Pil e l’anno scorso ha sostanzialmente replicato (+3,1%). E il guaio è che in questa fase siamo pienamente coscienti di non essere sfidanti, ammesso che quello con Madrid possa essere considerato un derby non sappiamo con quali energie lo giocheremmo. Basta osservare i contenuti del dibattito politico italiano post elezioni per avere contezza della nostra paralisi: si discute prevalentemente in termini di redistribuzione, c’è come l’idea di voler risarcire gli elettori mettendo nella pipeline dei provvedimenti opzioni che puntano ad aumentare il reddito, anche a costo di farlo in maniera artificiosa e quasi in deroga alle leggi dell’economia. L’idea che la disuguaglianza si batta con più spesa pubblica in fondo sta facendo breccia anche nel Pd e potrebbe essere addirittura il terreno di future convergenze governative. E allora il sorpasso spagnolo finisce per essere tempestivo proprio perché ci costringe a rivolgere di nuovo l’attenzione alla crescita e in qualche maniera ci riporta all’abc, alla vecchia metafora “lana e pecore” di Olaf Palme. Aumentare la ricchezza è la condizione migliore per poterla redistribuire.
La vicenda spagnola si presta, infine, a un’ultima considerazione che tira in ballo il valore dell’azione statale nelle economie post crisi. Quale che sia la direzione che Madrid sceglie, quali siano le policy che adotta, persino quando mescola in maniera inedita liberismo e keynesismo riesce a produrre impatto sull’economia. L’amministrazione segue l’input. Da noi succede il contrario: anche le giuste riforme restano lettera morta perché i buoni propositi finiscono vittime dell’inerzia e della burocrazia.