A un mese e mezzo dal voto, le forze politiche restano divise su quasi tutto meno un punto: da Liberi e Uguali al Pd, passando per il M5S fino a Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, la grande maggioranza dei gruppi parlamentari almeno un’idea chiara sulla finanza pubblica ce l’ha. Dato che la stretta di bilancio durante la recessione è pesata tanto, sicuramente sarà vero il contrario. Più deficit pubblico deve per forza fare bene. Dunque tutti propongono interventi per aumentare, in modi diversi, il disavanzo.
Per capire quanto ci sia di logico in una sequenza del genere oggi esiste un’arma in più. Per la prima volta sta diventando possibile voltarsi indietro e tentare un bilancio di qualcosa che non sia solo una serie di anni orribili, perché l’Italia e l’Europa a questo punto vantano una ripresa che ha già quattro anni nelle gambe: dal 2014 al 2017. E mentre le interpretazioni della crisi sono sempre numerose, si direbbe che l’espansione venuta dopo divida e dunque appassioni molto di meno.
Eppure di lezioni non ne mancano, anche per l’Italia. A partire dal nesso di causa e effetto — vero o presunto — che stabilisce: più deficit pubblico uguale più crescita dell’economia. Per capire com’è andata il «Corriere» è partito da Ameco, la banca dati attraverso la quale la Commissione Ue segue i vari Paesi dell’euro. L’indicatore utile in questo caso è quello del saldo di bilancio «strutturale»: in altri termini, stimato al netto delle oscillazioni temporanee del ciclo economico e delle misure il cui impatto sui conti pubblici dura un anno solo. Si può discutere sull’esattezza assoluta di questi dati, ma i criteri sono uguali per tutti e mostrano se un governo europeo segua (oppure no) delle politiche restrittive.
Quell’indicatore mostra una constatazione che spesso sfugge: negli ultimi quattro anni l’Italia non ha praticato nessuna austerità. Al contrario, invece di diminuire, durante la ripresa il deficit «strutturale» è aumentato dell’1,1% del prodotto lordo (quasi 20 miliardi in più). In questo l’Italia si è mossa in direzione opposta al resto d’Europa. Nella media dell’Unione Europea il deficit strutturale è infatti calato, mentre nell’area euro solo Spagna e Lettonia registrano dal 2014 al 2017 aumenti del disavanzo misurato in questo modo. Negli altri sedici Paesi dell’unione monetaria, i saldi di bilancio dal 2014 a oggi risultano sostanzialmente stabili (per esempio in Grecia e in Germania) o più spesso si nota una decisa stretta di bilancio (per esempio in Francia e Olanda).
In sostanza in tutta Europa quasi solo l’Italia ha allargato le maglie della finanza pubblica durante la ripresa, mentre gli altri governi le stringevano o almeno le tenevano ferme. In base alla logica che guida i programmi delle forze politiche, questa diversità dovrebbe portare a un’espansione più rapida dell’economia italiana rispetto alle altre. Invece non succede, anzi il grafico in pagina mostra che è vero il contrario. Dal 2014 al 31 dicembre scorso l’Italia è cresciuta la metà della media dell’area euro e meno di metà di Germania, Spagna o Olanda. Nel complesso degli ultimi quattro anni solo Grecia e Finlandia fanno peggio (ma entrambe crescono più dell’Italia nel 2017). In pratica, l’allentamento dei cordoni della finanza pubblica durante ripresa ha coinciso con un’ulteriore stagione in cui l’economia italiana ha perso terreno sulle altre. Era scivolata indietro durante la recessione e la stagione del rigore sui conti, ha continuato a scivolare durante la ripresa e l’allentamento sui conti. Più deficit non è coinciso con più crescita, ma con meno.
Si può pensare che non conti la variazione dei saldi, perché a decidere tutto è il livello assoluto del deficit. Per esempio, è più facile tenere basse le tasse con un disavanzo elevato anche se questo non cambia mai. Però anche in questo caso i numeri per l’Italia non tornano: il Paese nel 2017 ha il deficit «strutturale» più alto di tutti i governi meno tre (Spagna, Grecia e Francia), e la crescita più debole della zona euro.
Dev’esserci dunque qualche altro freno, che non ha nulla a che fare con l’ossessione della politica per la finanza pubblica. Un indizio lo dà l’evoluzione del credito al settore privato in questi ultimi quattro anni. In Germania è cresciuto del 9,3%, in Francia del 14,3%. In Italia è sceso del 12,5%. In parte si spiega con la debolezza delle banche, ma sempre di più dipende dalla taglia minima di troppe imprese; la loro gracilità scoraggia gli istituti dal prestare, dati i vincoli internazionali che ormai li governano. Ovvio che restano altri nodi da sciogliere, dal calo del numero degli abitanti al Meridione. Ma nel 44esimo giorno di crisi di governo, la politica ancora non ascolta: «I partiti hanno tratto le conclusioni sbagliate dalla reazione calma dei mercati alle elezioni — scrive l’analista Lorenzo Codogno —. Non sembrano capire quanto sia pericolosa la situazione e fragile la fiducia. Molti investitori aspettano solo un innesco per puntare contro i titoli italiani».