Approfittiamo dell’euforia che ci prenderà in questi giorni e reinvestiamola progettando il futuro del made in Italy. Domenica l’apertura dei padiglioni di Vinitaly è stata accompagnata da code di vetture lunghe chilometri e chilometri ai caselli autostradali di Verona, oggi apre a Milano-Rho il Salone del Mobile.
C i sono tutti i presupposti per registrare un ulteriore successo di pubblico, di reputazione e di mercato. In breve una riconferma del nostro primato nella graduatoria internazionale del design. Per qualche giorno dimenticheremo i «warning» di Bankitalia sul rallentamento della ripresa 2018, non ascolteremo la minaccia di dazi e guerre commerciali che arrivano da Oltreoceano e forse metteremo in secondo piano persino le comprensibili ansie legate all’instabilità politica, a quel governo che non sarà facile mettere su. Ma attenzione, non bastano i bagni di folla delle fiere e nemmeno i flash della stampa internazionale (che almeno in queste circostanze ci loda senza riserve), il futuro del capitalismo leggero all’italiana ha bisogno di coltivare nuovi progetti e di mobilitare capitali pazienti.
L’ultimo errore che dobbiamo commettere è quello di considerare il made in Italy come un rendita di posizione, una polizza incondizionata sul nostro futuro industriale. La Grande bellezza come nuovo «stellone» d’Italia. A tutto, invece, va fatta la tara. Persino sugli straordinari numeri del nostro export dobbiamo sapere che su di essi incidono in maniera significativa i beni intermedi, che ci troviamo costretti a importare, e così il contributo finale che ne deriva al Pil non è straordinario come i volumi delle vendite all’estero ci farebbero supporre a prima vista. Per dirla nuda e cruda la crescita italiana, almeno negli indicatori ufficiali, continua a essere influenzata in maniera decisiva dalle vendite di auto o dall’industria del mattone (che purtroppo però non riesce a riprendersi come dovrebbe).
E allora approfittiamo delle fiere di Verona e Milano per discutere quali sono i passi in avanti che il nostro capitalismo leggero deve e può fare. Mi è capitato già di dire che Vinitaly potrebbe essere un progetto assai più ambizioso di una pur straordinaria esposizione a cadenza annuale, dovrebbe bensì diventare una moderna piattaforma di distribuzione e persino il brand per vendere nel mondo il nostro vino. E tentare di rendere la pariglia alla straordinaria capacità distributiva dei cugini francesi. Perché un progetto così lineare non è stato messo mai all’ordine del giorno dalla Cassa depositi e prestiti o dai fondi strategici creati ad hoc? Di esempi più o meno analoghi se ne possono avanzare svariati specie in un momento in cui le grandi piattaforme tecnologiche stravolgono i termini della competizione di molti business e in virtù della loro velocità/efficacia rischiano di accaparrarsi la fetta maggiore del guadagno. Tocca allora ai distretti italiani, che sono il retroterra industriale di queste straordinarie manifestazioni fieristiche, prendere in mano l’iniziativa. Va riconosciuto loro il grande merito di non aver mollato sotto i colpi della Grande crisi e di aver smentito con i fatti chi li aveva già sepolti, ma è anche vero che potrebbero fare di più, quasi inventare una loro politica industriale dal basso. Apertura del capitale, logistica, formazione, politiche della distribuzione, aggregazioni, staffetta generazionale… l’elenco è anche troppo facile da compilare.