Si può partecipare al lavoro oppure si può essere parte del lavoro. Partecipare al lavoro si traduce in un numero freddo per certificare quante persone lavorano. Essere parte del lavoro significa mettere “anima e corpo” in quello che si fa e venire riconosciuti per questo. Sono due condizioni diverse. Ci sono milioni di persone che al loro turno si presentano e tengono la testa fuori dai cancelli della loro azienda. Partecipano al lavoro perché le loro energie si spendono in un determinato ruolo, ma non sono dentro ad un progetto lavorativo, non sono coinvolti nel disegno aziendale. Puoi fare lo spettatore ad una partita di calcio, oppure puoi essere un giocatore che crea la partita. Da che cosa dipende questo diverso approccio? Ci sono molte componenti, anche tratti personali, che incidono. Le aziende, però, hanno una grossa responsabilità nel creare le condizioni per far giocare o meno la partita ai lavoratori. La cultura aziendale è una delle principali condizioni. La cultura aziendale è impastata dai valori che sono trasmessi dagli azionisti o dal management. I valori non sono nulla se non si traducono in regole che a loro volta si distribuiscono in comportamenti, che a loro volta si concretizzano, nella quotidianità, in consuetudini. I pioli della scala partono da un cumolo-base, fatto di moralità e sentimenti: il nocciolo duro dei valori. Essere e fare parte di un’azienda richiede di aver definito in modo preciso questo giacimento valoriale. Solo in un secondo momento le regole supportano, distribuiscono e creano questa tassonomia partecipativa. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un livello di partecipazione non necessario per il lavoro. In fondo lo scambio economico che avviene tra prestazione e retribuzione è in grado di completare l’economia della prestazione lavorativa. Le forme di partecipazioni si possono comporre da forme elementari o da insiemi molto complessi. “La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa” è un libro scritto a più mani che affronta questi temi. Tra il 1998 e il 2002, la società ISMO, una delle storiche realtà consulenziali italiane, aveva promosso una rivista, “L’impresa al plurale. Quaderni della partecipazione”. Questo libro si prende sulle spalle l’eredità della rivista e tenta di fare un bilancio dopo oltre quindici anni dalla sua ultima edizione. I protagonisti del libro sono in parte nuovi, in parti legati a quella stagione. L’impressione è che le esigenze del lavoro, e dei lavoratori, non siano per nulla cambiate. I bisogni di essere e fare parte sono tutti lì. Le esigenze sono intatte, come nulla fosse cambiato. Nonostante il tempo trascorso sia rilevante, e le trasformazioni siano state impetuose, il nocciolo della questione è ancora presente: la persona nello spazio lavorativo vuole esserne parte.
Perché partecipare?
Come ci ricorda Michele Carcano vi sono diversi obiettivi che sottendono alla partecipazione:
-Un primo obiettivo è quello di intervenire per migliorare i processi informativi dell’impresa. Nei luoghi di lavoro l’asimmetria informativa è una spaccatura che rischia di allargarsi più che restringersi. Ridurre questo gap assume il significato di offrire occasioni trasparenti in cui l’imprenditore favorisce i diritti e le speranze dei lavoratori. Un intervento sui processi informativi genera una trasparenza nelle relazioni fra i diversi lavoratori;
-Un secondo obiettivo è volto ad aiutare a migliorare lo stato di salute economica dell’impresa. Un obbiettivo che può essere misurato con gli indicatori della redditività e delle performance dell’impresa. Questi possono agganciare pezzi di salario variabile quanto mai utili per aumentare la produttività aziendale. Spesso sono luoghi collettivi quelli in cui si muove questo obiettivo. Nel panorama delle esperienze empiriche collettive si possono inserire le modalità partecipative che vanno sotto il nome di “democrazia industriale”. Qui si possono distinguere forme che si possono considerare forti, che vanno dalla cogestione ai comitati di sorveglianza, a forme che possono essere considerate come a media intensità, che vanno dai diritti di informazione a quelli di consultazione;
-Un terzo obiettivo si rivolge ai processi produttivi e sull’organizzazione. Si raggiunge con un livello manageriale fatto nel day by day. Permette di utilizzare al meglio le competenze professionali e le energie del singolo lavoratore. Come dimostra l’esperienza non sono tanto i comitati formali che rendono la partecipazione del singolo un processo naturale, molto spesso è la quotidianità della relazione tra capo e collaboratore che struttura la dimensione partecipativa. In una forma estrema, si può arrivare ad una forma partecipativa piatta e larga che possiamo definire con la parola autogestione.
La via italiana alla partecipazione
In un testo simile non poteva non esserci la voce del sindacato e le esperienze sul campo. Marco Bentivogli, leader della FIM CISL, nel dare continuità alla tradizione cislina, che ha sempre visto questa sigla sindacale molto attenta a questi temi, non solo accetta la sfida ma rilancia il dibattito partendo da una analisi sulle diseguaglianze che il sistema lavoro sta creando. Per Bentivogli, una partecipazione che fa bene alla salute, dentro ai luoghi di lavori, fa bene anche alla democrazia del Paese nel momento in cui i contratti nelle singole aziende riescono a rendere la partecipazione un atto di responsabilità di tutte le parti coinvolte. Dall’altra parte, Aldo Amoretti, storico sindacalista della CGIL, mantiene tutti i dubbi e le perplessità che hanno fatto del sindacato di Susanna Camusso il principale antagonista alla partecipazione. Tradotto: capitale e lavoro si incontrano, ma non possono mischiarsi. Oltre a metterci pensiero, il libro ha anche la capacità di fare la ricognizione di alcune esperienze emergenti nel nostro Paese. Lamborghini, Contesto, Acam, Hera, Chromavis sono alcune delle aziende che trovano spazio nel raccontare la propria realtà. Molto spesso si tratta di una partecipazione formale e contrattata con i sindacati che non raggiunge i livelli teutonici della Mitbestimmung. Sicuramente cerca di superare i fallimenti del modello Alitalia degli scorsi anni. Proprio in questi giorni si è aperta la prospettiva Alcoa di Porto Vesme con l’entrata nel capitale nella nuova società di un 5% rappresentato dai lavoratori che entreranno nel comitato di sorveglianza. Un salvataggio dell’azienda – come ha sottolineato Dario Di Vico sulle colonne del Corriere – che passa attraverso la partecipazione dei dipendenti ma che potrebbe aprire un nuovo orizzonte negoziale per CGIL-CISL-UIL. Rimane la sensazione, confermata dal capitolo scritto da Piero Albini (Responsabile dell’Area Lavoro di Confindustria) presente nel libro, che – per il momento – la via italiana sia lastricata di molte buone intenzioni, ma che non riesca a fare sistema:
“In questa difficile e confusa transizione, da un passato che conosciamo bene verso un futuro che ancora non riusciamo a prevedere, l’unica bussola rimane la persona, con tutti i suoi limiti ma anche tutte le sue potenzialità”.
Dalla Germania alla Silicon Valley, e ritorno
La cogestione tedesca è stata resa possibile in Germania nel 1951 per mezzo di un referendum indetto dal potente sindacato del settore siderurgico e minerario. Il cancelliere dell’epoca, Konrad Adenauer, pur non molto convinto, accettò la Mitbestimmung, che pure la confindustria tedesca ha fin dall’inizio duramente avversato, fino a chiedere (ma inutilmente) alla Corte Costituzionale tedesca di abrogarlo in quanto contrario al diritto costituzionale della proprietà privata. La riforma rimase nel cassetto per un po’ e solo nel 1976 fu estesa dal governo socialdemocratico di Willy Brandt alle aziende nazionali ed estere di tutti i settori industriali con più di 2000 addetti. Così in Germania per legge dello stato il lavoro è rappresentato nei consigli di sorveglianza che definiscono le strategie delle imprese, nominano i manager e controllano il loro operato. E’ curioso notare che nonostante questo intreccio partecipativo, nel 2015 la Volkswagen è stata oggetto del più grande scandalo, il dieselgate, che abbia coinvolto un’azienda tedesca, e forse mondiale. Un affaire che ha rischiato di mandare in bancarotta quella che viene considerata la più grande casa automobilistica del pianeta. Il potente sindacato IG Metal, in quel caso, nonostante tutti i suoi rappresentanti nel consiglio di sorveglianza, non riuscì a captare quello che stava avvenendo. Dall’altro lato, una realtà come Facebook, che nei suoi valori costitutivi ha quelli di connettere – prima di tutto – le persone che vi lavorano all’interno, si trova ad affrontare in queste settimane il momento più buio della sua recente storia con lo scandalo Cambridge Analityca. Due esempi molto diversi di aziende, per settore e per sistemi di partecipazione, più formale il primo più informale il secondo, che non sono riuscite a trovare al loro interno i cromosomi distribuiti per evitare simili scandali. Tutto da buttare quindi? No, anzi. Il tema rimane e Federmeccanica, all’interno del suo documento programmatico chiamato “Impegno”, reso pubblico in questi giorni, ha deciso di affrontare la questione. Federmeccanica è titolata a farlo perché, con il suo ultimo CCNL, ha tracciato una via nuova per i suoi associati, e per tutte le altre federazioni aderenti a Confindustria. È un’operazione, prima di tutto culturale, che sta aiutando le imprese a rivoluzionare il modo di fare azienda e sta creando le condizioni per costruire relazioni industriali che abbiano un senso.
Titolo: La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa
Autore: AA.VV.
Editore: Guerini Next
372 pp; 30 Euro